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Questo articolo è stato pubblicato il 10 agosto 2014 alle ore 18:54.
L'ultima modifica è del 11 agosto 2014 alle ore 07:12.

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Da 12 anni il partito islamico Akp non perde un'elezione e il suo leader Recep Tayyip Erdogan ha vinto la corsa più importante, quella che lo porterà a occupare il Palazzo presidenziale di Chankaya sostituendo Abdullah Gul, uno dei suoi antichi compagni di strada.

Sul Bosforo, dove sta seguendo lo spoglio dei voti, i suoi seguaci stanno cominciando già a radunarsi e sfoderano le bandiere della vittoria anche a Piazza Taksim, teatro un anno della rivolta dei giovani di Gezi Park. Qui c'è il monumento al padre della patria, Kemal Ataturk: Erdogan vuole essere il fondatore di una nuova Repubblica.

Ma il nuovo presidente turco, dopo avere brevemente ringraziato la folla di Istanbul prima di volare ad Ankara per il discorso ufficiale, ha fatto sul Corno d'Oro anche un gesto assai significativo: è andato nella moschea di Eyup, un famoso santo musulmano, per ringraziare Allah. È lo stesso rituale che seguivano un tempo i sultani prima di ascendere al trono della Sublime Porta.

Erdogan è sopravissuto a tutto: al carcere, quando era ancora sindaco di Istanbul, ai militari, che è riuscito a mettere in un angolo, alle proteste popolari, agli scandali, ai terremoti finanziari che hanno colpito nell'ultimo anno la lira turca.

È passato come un rullo compressore sopra i suoi avversari, a partire dall'Imam Fethullah Gulen, in esilio volontario negli Stati Uniti, un ex alleato che ha accusato di volere costituire uno stato parallelo. Per metterlo in ginocchio Erdogan l'altro giorno ha persino invitato i turchi a ritirare i depositi dal suo istituto di credito, la Bank Asya. Non esita a essere scorretto, a far licenziare i giornalisti che lo criticano, a manipolare l'opinione pubbblica inventando complotti internazionali contro la Turchia.

Il primo ministro ha sollevato una cortina fumogena di accuse per occultare le ruberie dei suoi ministri e degli accoliti, protestano con qualche fondatezza i candidati dell'opposizione, ma la realtà è che i turchi continuano a credere a Erdogan non a loro, l'esponente del partito Chp, il diplomatico Ekmeleddin Ihsanoglu, e il curdo Selahattin Demirtas.

La sua base elettorale, religiosa, conservatice, espressione di una Turchia tradizionalista ma anche affluente e arricchita, simbolo di classi sociali a lungo emarginate nella repubblica dei laici, non lo abbandona mai. E lo acclama come si farebbe con un Sultano, il Sultano del Bosforo, insidiato soltanto da un nuovo scomodo vicino, il "Califfo Ibrahim", Abu Bakr al Baghdadi, capo del movimento integralista che sta devastando e terrorizzando l'Iraq del Nord.

A Kazimpasa, il quartiere dove Erdogan è cresciuto, già stamane preparavano i festeggiamenti. In questo angolo della Istanbul popolare stravedono per lui: «È un uomo che non fa differenze sociali e di classe, è uno di noi, è un nostro fratello» dice Ilyas, 65 anni, con un tifo quasi calcistico, degno di un Erdogan che da giovane brillava in campionato come ala destra. «Voto per lui perché è un lavoratore onesto che ha rilanciato l'economia - gli fa eco Taner -. Eravamo indebitati con il Fondo monetario e adesso sono a loro a chiederci i soldi». Magari non è poprio così ma non si guarda troppo per il sottile: se è vero che la Turchia in un decennio ha messo a segno un miracolo economico con una crescita media del 9% annuo, balzando al 16° posto tra le economie mondiali, da qualche tempo questo boom si è dimezzato e affiorano le prime preoccupazioni.

Eppure anche nella sua roccaforte di Kasimpasa si percepisce che la Turchia rimane un Paese diviso, dove l'opposizione può perdere ma rimane attaccata con le unghie e con i denti a quell'immagine di repubblica laica e secolarista voluta da Ataturk. Ma è proprio questo l'obiettivo di Erdogan: riformare la costituzione in senso presidenziale, magari con il voto anticipato, e relegare Ataturk negli archivi della storia.

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