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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2014 alle ore 06:38.

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Nel tradizionale "discorso dal balcone" alla sede di Ankara del partito islamico Akp, Erdogan ha salutato la vittoria della «nuova Turchia» e con toni insolitamente concilianti ha promesso che sarà il presidente di «tutti» i 77 milioni di turchi, invitando il Paese ad accantonare «la cultura del conflitto». Ma come andranno le cose dopo il trionfo di Recep Tayyip Erdogan alle presidenziali lo si era già capito alla vigilia del voto.
L'ex premier non lascerà che il governo sfugga al suo controllo e il prossimo primo ministro sarà comunque un personaggio manovrabile. La repubblica non è ancora presidenziale - come vorrebbe Erdogan se un giorno otterrà i due terzi dei voti per cambiare la Costituzione - ma la vittoria nella prima elezione popolare diretta del capo dello Stato è una sorta di consacrazione per una presidenza forte e autoritaria: ha vinto con il 51,7% (21 milioni di voti) lasciando lontani sia il rappresentante del partito repubblicano Ekmeleddin Ihsanoglu (38,5) che il curdo Salahettin Demirtas, il quale con quasi il 10% ha colto comunque un buon successo .
«Questo vuole il popolo», ha proclamato il neo presidente, citando nel suo discorso Gaza, Ramallah e Gerusalemme: indicherà una persona che non lo possa minimamente mettere in ombra nel partito islamico Akp, trascinato al successo otto volte in 12 anni di elezioni. Se lui è il Sultano della repubblica, il prossimo premier sarà probabilmente una sorta di Vizir, un fedele esecutore.
Anche i gesti simbolici hanno un loro valore in momenti come questi: dopo la vittoria Erdogan si è recato nella moschea di Eyup sul Corno d'Oro, per una preghiera di ringraziamento, seguendo lo stesso rituale dei sultani prima di salire sul trono della Sublime Porta. Ed ecco che nel mazzo dei candidati a guidare il governo si indebolisce ora l'ipotesi del presidente uscente Abdullah Gul. Appare sempre meno probabile uno scambio di posti del tipo Putin-Medvedev mentre circolano altri nomi, dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu all'ex capo degli Interni di origine curda, Beshir Atalay; come pure ci sono voci sul capo dei servizi Hakan Fidan, lo spericolato manovratore dei jihadisti sul confine turco-siriano, e sull'ex ministro dei Trasporti Binali Yildirim, che si era dimesso dopo la tangentopoli turca. Tutta gente la cui sorte dipendeva e dipende da Erdogan.
Due vicende, una mediatica e l'altra finanziaria, ci dicono quale sarà la linea del Sultano del Bosforo. Prima di andare a votare Erdogan ha fatto fuori due giornalisti critici del suo governo: uno è il direttore di Hurriyet, quotidiano del gruppo Dogan che ha appena ricevuto appalti pubblici consistenti, l'altro è stato messo in carcere perché aveva dato fastidio sulla questione delle intercettazioni.
Ma se eliminare la stampa scomoda e minacciare la corrispondente turca dell'Economist fa parte del copione in un Paese dove più di 50 giornalisti sono dietro le sbarre, l'episodio forse più indicativo riguarda Bank Asya, istituto finanziario islamico con asset per 20 miliardi di dollari gestito da un gruppo vicino al famoso imam Fethullah Gulen, in esilio volontario negli Stati Uniti, un ex alleato del neopresidente accusato da Erdogan di avere costituito uno "stato parallelo". In un meeting il premier aveva chiesto ai suoi sostenitori e al pubblico turco di non mettere soldi in questa banca: in poco tempo sono stati ritirati da Bank Asya 1,8 miliardi di dollari, circa il 20% del totale dei depositi.
È stato qui che è intervenuto il vicepremier Ali Babacan, islamico moderato e punto di riferimento per l'economia e la comunità degli affari. Su Babacan, prima delle presidenziali, puntavano i moderati per dare vita a un governo con una rotta meno autoritaria. Babacan aveva proposto che l'istituto statale Ziraat Bank acquistasse la Bank Asya le cui azioni sono quindi cominciate a salire con un'impennata del 10 per cento. L'operazione poteva essere vantaggiosa e secondo Babacan permetteva allo Stato di entrare direttamente nella finanza islamica.
A questo punto è sceso in campo uno dei consiglieri più controversi ma anche più vicini a Erdogan, Yigit Bulut, un bizzarro anchorman televisivo, fedele scudiero del premier, che durante la rivolta di Gezi Park nel 2013 si era distinto per avere accusato le potenze straniere di volere uccidere il leader turco con la telecinesi. Bulunt ha bloccato l'acquisto della Bank Asya, smentendo Babacan e affermando che si trattava di fermare una speculazione di Borsa. Il salvataggio di Bank Asya è quindi saltato con un tonfo del titolo: non è esattamente questo che si aspettano gli investitori da un governo solido. Anche se ieri la lira si è rafforzata, tutti guardano a come sarà costituita la nuova squadra economica e al flusso degli investimenti stranieri che hanno contribuito in maniera determinante al boom della Turchia.
Ma l'economia per Erdogan adesso viene dopo la politica. Vuole regolare i conti con gli avversari e senza fare prigionieri. Il suo obiettivo è sfruttare l'onda lunga di questo successo, preceduto da quello alle elezioni amministrative del marzo scorso, per anticipare magari alla fine dell'anno le elezioni politiche del 2015: il traguardo è ottenere la maggioranza necessaria per trasformare la Turchia in un regime presidenziale e archiviare la repubblica fondata nel 1923 da Kemal Ataturk.
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