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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2014 alle ore 18:34.
L'ultima modifica è del 12 agosto 2014 alle ore 18:49.
Raggiunto sul filo di lana, l'accordo salva-Wto di Bali è già al naufragio, affossato dall'India di Narendra Modi.
Il 31 dicembre del 2013, i 159 Paesi riuniti in Indonesia avevano sottoscritto un accordo per abbattere i costi delle transazioni commerciali (trade facilitation agreement - Tfa), impegnandosi a tagliare le procedure burocratiche che rallentano il passaggio delle merci attraverso le dogane e ne alzano il costo. Per quanto modesto, si trattava comunque del primo risultato significativo raggiunto nei 13 anni del Doha round. E soprattutto permetteva alle delegazioni di alzarsi dal tavolo senza aver ufficialmente affossato l'Organizzazione mondiale per il commercio.
Proprio allo scadere del termine per la ratifica del Tfa, il 31 luglio, il premier Modi ha però ritirato il sostegno concesso dal precedente governo indiano, guidato dal Congresso. La Wto torna così nel tunnel che rischia di portarla all'irrilevanza, se non come arbitro sovranazionale delle dispute commerciali sulle regole generali già esistenti.
Prima ancora che sul piano politico, lo stallo sul Tfa (i negoziatori si incontreranno di nuovo a settembre) ha conseguenze economiche che penalizzano in primo luogo i Paesi in via di sviluppo e le imprese che lavorano su questi mercati. Per ridurre il peso della burocrazia nelle pratiche doganali, l'accordo prevede il potenziamento di una serie di infrastrutture, con automazione e digitalizzazione di una serie di passaggi. I costi per modernizzare porti congestionati e sbloccare le strozzature di strutture doganali inefficienti e corrotte sarebbero coperti da programmi di assistenza internazionale ai Paesi poveri. Rendendo più facile e fluido il commercio, l'accordo potrebbe agevolare soprattutto quelle piccole e medie imprese che spesso si vedono chiudere le porte dell'export dai costi della burocrazia. Oggi, per superare la dogana di Mombasa, in Kenya, un carico merci impiega se va bene tre o quattro giorni, quando a Singapore basta qualche ora. Per trasferire quelle merci da Mombasa a Kampala, in Uganda, ci vogliono almeno altri quattro giorni di dogana e poi altri due se si vuol arrivare fino a Kigali, in Rwanda. È su questi colli di bottiglia che il Tfa andrebbe ad agire.
L'Ocse stima che per i Paesi a basso e medio reddito, l'accordo potrebbe ridurre del 15% i costi sostenuti per il commercio estero. Secondo lo statunitense Peterson institute for international economics, il Tfa potrebbe permettere di creare 21 milioni di posti di lavoro, per la maggior parte nei Paesi in via di sviluppo, i quali, India compresa, vedrebbero il proprio Pil crescere di 523 miliardi di dollari. In tutto, la ricchezza mondiale potrebbe aumentare di mille miliardi.
Cifre contestate da New Delhi, che blocca il negoziato per difendere i propri sussidi alimentari. Già a dicembre questo era stato lo scoglio su cui la trattativa di Bali rischiava di naufragare. In base alle regole della Wto, i sussidi agli agricoltori nei Paesi in via di sviluppo non possono superare il 10% del valore del raccolto. Una soglia che New Delhi rischia di infrangere visto che sta portando a 4 miliardi di dollari l'anno il programma pubblico di sicurezza alimentare, finalizzato a garantire cibo a basso prezzo a circa 850 milioni di persone. In India, il 25-30% della popolazione spende oltre la metà del proprio reddito in cibo, e metà della forza lavoro è impegnata nell'agricoltura. Dal 2001, le risorse stanziate agli agricoltori sono raddoppiate e continuano ad aumentare. In totale i sussidi ammontano a 12 miliardi di dollari l'anno.
Per venire incontro a New Delhi, a Bali si decise di rendere il suo programma di sicurezza alimentare immune da contestazioni in sede Wto per quattro anni. Il nuovo premier Modi però non ha intenzione di accettare il compromesso sottoscritto dal suo predecessore e che nel 2017 lo costringerebbe comunque a tagliare i sussidi. Una mossa impopolare, anche se a beneficiare della manna pubblica non è sempre chi ne ha bisogno, dato che la corruzione ne dirotta una buona parte e i soprusi della burocrazia trasforma in strumento clientelare quello che dovrebbe essere un diritto.
Il veto lascia New Delhi sempre più isolata, senza nemmeno l'appoggio di Cina e Brasile e in compagnia soltanto di Cuba, Venezuela e Bolivia. Inoltre, i Paesi favorevoli all'accordo potrebbero decidere di andare avanti comunque, lasciando fuori proprio l'India.
In termini più generali, la vittima dello stallo è la stessa Wto. Piuttosto che farsi frenare dal veto di singoli Paesi in defatiganti e inconcludenti negoziati multilaterali, le potenze commerciali hanno già cominciato a fare accordi con chi ci sta, attraverso sempre più numerose intese bilaterali, e sono arrivate a concepire ambiziosi (secondo alcuni irrealistici) negoziati macro-regionali come la Trans pacific partnership o la Trans atlantic trade and investment partnership tra Ue e Usa. Di fronte alla paralisi di una Wto incapace di riformarsi, sarà sempre più forte la spinta a seguire questa strada, per quanto ardua. Il risultato, avvertono in molti, non sarebbe un mondo più aperto, ma un mondo frammentato in blocchi commerciali più o meno rivali. L'opposto dell'obiettivo perseguito prima dal Gatt e poi dalla Wto: smantellare i protezionismi doganali e commerciali degli anni 30 del 900.
Proprio per evitare questo scenario, a Bali si era congegnato un trattato in grado di mettere tutti d'accordo come il Tfa. Certo, poche speranze si erano accese di fronte a un risultato così modesto. Modi sembra deciso a spegnere anche quelle.
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