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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2014 alle ore 06:36.
L'ultima modifica è del 21 agosto 2014 alle ore 13:17.

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Il brutale omicidio con cui gli assassini dello Stato Islamico avvertono il presidente Obama di quale sarà il terribile prezzo che i suoi cittadini dovranno pagare se tenterà di fermarne l'avanzata fa ripiombare l'America nell'incubo dell'11 settembre. Lo sgozzamento di James Foley riporta alla memoria quello di un altro giornalista americano, Daniel Pearl, perpetrato in Pakistan nella prima fase della cosiddetta "war on terror".

La "war on terror" di George W. Bush, quella da cui l'intera presidenza di Obama ha cercato di prendere le distanze. Fu sul filo della discontinuità rispetto al tema della guerra al terrorismo e della sicurezza a favore dei temi economici, della rivincita di "Main Street" verso "Wall Street", che il presidente Obama giocò e vinse la sua più difficile partita politica: quella contro Hillary Clinton, per la nomination democratica. E così non può non far riflettere che, pochi giorni fa, proprio le critiche al presidente Obama per non aver reso il mondo un posto più sicuro per gli Stati Uniti abbiano segnato l'avvio ufficioso della lunga marcia dell'ex segretario di Stato verso la Casa Bianca. Chi ha confezionato il macabro videomessaggio per il presidente conosce bene queste dinamiche: è barbaro ma non sprovveduto. E lo Stato Islamico sta dicendo all'America che se continuerà a ostinarsi a interferire con i suoi progetti, i suoi affiliati saranno pronti a coinvolgere nella loro guerra anche (e sempre più) target americani e occidentali, fino ad arrivare a portare la guerra sul suolo americano ed europeo.

Il dilemma del presidente premio Nobel per la pace «sulla fiducia» è come fare ad accettare questa sfida senza che ciò implichi il ripercorrere i fatali errori del suo predecessore. Come combattere la seconda fase della "war on terror" senza automaticamente ritrovarsi a doverne gestire nuove, drammatiche conseguenze, mentre quelle della prima fase ancora ingombrano il campo e alimentano il caos. La stessa espressione è difficile oggi da evocare, dopo lo stiracchiamento concettuale cui l'hanno sottoposta gli strateghi neocon di George W. Bush.

Eppure il fatto evidente è che mai come oggi il campo di battaglia è fisicamente occupato da un esercito di fanatici islamisti che adottano il terrore per mettere in fuga i propri nemici o costringerli a "convertirsi" o piegarsi ai propri voleri: si tratti di Yazidi o di Cristiani, di Sciiti o di Sunniti, di Arabi o Occidentali.

L'alternativa di voltare la testa dall'altra parte, di volgere lo sguardo e la coscienza altrove, da taluni evocata in nome dei "ben altri problemi" (di natura economica) che assillano i cittadini delle democrazie occidentali, semplicemente non esiste. Non è possibile più di quanto sarebbe stato possibile negli anni che portarono al 1914 fingere che una "questione balcanica" e, più in generale, il tema dell'irredentismo delle nazionalità in Europa non stessero per detonare. Oggi, quella che il Papa ha voluto evocare come una "Terza guerra mondiale" ha per epicentro il Levante arabo che si pone come "la questione islamista", ovvero dell'utilizzo improprio della politica per realizzare fini "ultrapolitici". Lasciare che all'interno al mondo musulmano prevalgano questi fanatici armati di coltellacci ma anche di blindati sarebbe un suicidio politico e potrebbe davvero innescare un conflitto di proporzioni spaventose. Ma l'America è stanca di guerre di cui fatica a vedere la fine e a intendere precisamente il fine. Mentre l'Europa arranca, consapevole della propria debolezza politica e militare e dell'assenza di una vera leadership, fatta evidentemente non solo di persone (o più spesso "personaggi"), ma anche e soprattutto di una cultura politica e di valori condivisi e idonei, appropriati, per battersi con successo e senza infingimenti quando è necessario, usando anche la forza quando non ci sono alternative.

I (pochi) non critici della concezione e della conduzione della "Grand Strategy" del copresidente Obama la definiscono orientata a un "realismo non ideologico". Ed è vero che, per nulla paradossalmente, l'agenda internazionale di Obama è stata molto meno ideologica della sua agenda domestica. Tutto sommato, la sua retorica è stata assai meno velleitaria di quella di altri suoi predecessori, primo tra tutti Kennedy. E con il passare del tempo il presidente ha dato mostra di essere ben consapevole della distanza che intercorre tra il libro dei sogni e la responsabilità della leadership. Ma quanti dentro e fuori gli States sono pronti ad aiutarlo e sostenerlo nel prendere decisioni magari gravose ma giuste e necessarie, tantopiù quando i venti del pacifismo "senza se e senza ma" tornano a soffiare, suadenti eppure impetuosi, nel discorso mediatico globale?

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