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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2014 alle ore 06:36.

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di Roberto Bongiorni

Sconfiggere l'Isis non è un'impresa facile, né rapida. E, ancora una volta, il solo uso della forza militare probabilmente non sortirebbe gli effetti desiderati.

P er sradicare lo Stato Islamico, il nuovo nome con cui si è rinominato lo "Stato islamico dell'Iraq e del Levante", è necessario affiancare alle operazioni militari una strategia politica: vale a dire creare a Baghdad un genuino governo di unità nazionale, in cui la componente sunnita sia davvero rappresentata. E soprattutto dialogare con le tribù sunnite che ancora oggi sostengono l'avanzata degli estremisti del "califfo" Abu Bakr al-Baghdadi, offrendo loro un indispensabile supporto logistico in chiave anti-sciita.
Le soluzioni escogitate dalla comunità internazionale - dai raid aerei americani alle forniture di grandi partite di armi alle forze militari curde - sono in alcuni casi onerose e comunque di breve termine. Capaci, se non gestite oculatamente, di appiccare un nuovo incendio in una regione molto complessa che si regge su delicati equilibri etnici e confessionali.
Sostenere l'offensiva dei peshmerga, le forze armate della regione autonoma del Kurdistan, supportandole con i bombardamenti aerei, resta la soluzione più condivisa. Con un'operazione simile, alla fine del 2001 gli Stati Uniti avevano sostenuto l'Alleanza del Nord aiutandola a rovesciare il regime dei Talebani. Ma il dopo Talebani non è stata certo la storia di un successo.
Anche, e soprattutto nel caso iracheno, c'è un pericolo che non deve essere sottovalutato. Il governo centrale di Baghdad, da tempo ai ferri corti con il Governo regionale del Kurdistan Iracheno (Krg) sulla gestione delle risorse energetiche e sulle sue aspirazioni secessionistiche, diffida dei curdi. Anche perché se i peshmerga divenissero la sola forza che ha liberato le grandi città irachene conquistate dall'Isis, come Mosul, il Governo di Erbil potrebbe poi chiedere dolorose contropartite, come l'annessione di Kirkuk, la città contesa ricca di giacimenti petroliferi, e di alcune province vicine, se non dichiarare unilateralmente l'indipendenza del Kurdistan iracheno. Le fiere popolazioni sunnite, ora in rivolta contro il Governo sciita di Baghdad, non sarebbero poi felice di vedere i curdi insediati a lungo in casa loro. Sconfitto militarmente, l'Isis potrebbe poi ricorrere alle tecniche della guerriglia asimmetrica. Con attacchi mordi e fuggi e attentati kamikaze.
Il movimento guidato da al-Baghdadi non è tuttavia quel monolite che vuole mostrare di essere. Se è riuscito a conquistare un territorio ampio come metà dell'Italia tutto ciò è stato possibile anche grazie al sostegno di parte della popolazione sunnita e delle potenti tribù sunnite, da anni in rivolta contro il Governo di Baghdad.
L'intervista rilasciata in luglio da Ali Hatem Suleimani, il capo di una delle più grandi tribù dell'Iraq, è emblematica. Pur condannando fermamente i massacri compiuti dall'Isis e distanziandosi dalla loro ideologia, Suleimani si rifiutava di rompere l'alleanza militare con l'Isis a meno che il controverso premier sciita al Maliki rassegnasse le dimissioni.
Solo i sunniti, insomma, sono la vera forza capace di assestare un duro colpo al regime oscurantista di al-Baghdadi. La soluzione, dunque, è cercare di erodere il sostegno e il supporto logistico offerto all'Isis. La strategia per conseguire questo obiettivo è complessa. Ma è utile ricordare l'operazione compiuta con successo a cavallo del 2005 e del 2006 dall'allora capo delle forze armate Usa in Iraq, David Petraeus. Il generale pluridecorato sapeva che il grave errore commesso da Washington quando rovesciò Saddam Hussein fu di estromettere dalla vita irachena tutti i membri dell'ex partito Baath e i quadri dell'esercito, quasi tutti sunniti. Molti di loro si unirono così nella battaglia contro l'"invasore". Petraeus ebbe l'accortezza di identificare i gruppi sunniti di resistenza e di portarli dalla sua parte. L'operazione venne ideata nel 2005, ma i "comitati del risveglio" iniziarono a operare nel 2006. Vennero registrati circa 100mila miliziani, pagati dagli Usa 360 dollari al mese. I comitati cominciarono a ingrossare le loro file un po' dappertutto. Al-Qaeda perse molte basi logistiche. Ma dopo l'affermazione elettorale del 2009, il premier Nouri al Maliki emarginò i comitati del risveglio.
Accanto all'offensiva militare e a quella politica - indispensabile - sarà vitale cercare di tagliare i canali attraverso cui l'Isis si finanzia. Lo stato Islamico appare finanziariamente solido. Nessun movimento qaedista ha avuto a diposizione più mezzi. Ma tagliare i finanziamenti che arrivano dall'esterno e le risorse interne non è un operazione impossibile, anzi. Sarebbe necessario colpire i depositi nascosti nelle banche di alcuni Paesi del golfo. Ma anche cercare di fare pressioni su Arabia Saudita e Qatar che, spaventati dall'ascesa sciita in Iraq, non vedono di cattivo occhio la ribellione sunnita nel nord ovest dell'Iraq. Strategie meno rapide di quelle militari. Ma efficaci sul lungo termine. Tenendo presente che l'ultima parola spetta ai sunniti iracheni.
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