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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2014 alle ore 06:36.

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di Alberto Negri
Il passato di rado può suggerire soluzioni politiche al presente ma racconta una storia da conoscere. Quella dell'Iraq e della Siria appartiene a un intreccio complesso.

U n intreccio tra strategie coloniali, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalisti che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente conosciuto fino a oggi. Già allora comparvero sulla scena movimenti fondamentalisti islamici e rivolte di massa di cui l'ultima con effetti dirompenti si è avuta nel 2011. Ci fu un tempo in cui l'idea del Califfato diventò una soluzione politica anche per l'Occidente. Ricordarlo oggi di fronte alle atrocità dell'Isis può apparire una bestemmia. Ma fu esattamente quanto fece il ministro delle Colonie Winston Churchill: con l'espediente politico dei califfati e degli sceicchi mise a capo degli Stati sotto mandato britannico i monarchi arabi del clan hashemita degli Hussein, sovrani della Mecca. Fu così che nacquero l'Iraq, la Siria e la Giordania. Emiri e sceicchi allora erano al servizio del piano coloniale per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando.
La guerriglia e il terrorismo praticati dallo Stato Islamico di Abu Bakr al Baghdadi sono adesso funzionali a un progetto completamente diverso: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto la bandiera nera di un nuovo Califfato. È evidente che niente può giustificare i massacri e le esecuzioni dell'Isis ma bisogna riconoscere il problema: i sunniti sono una maggioranza in una Siria dominata per quarant'anni dal clan degli alauiti di Assad, mentre in Iraq, rispetto agli sciiti, rappresentano una minoranza che con Saddam Hussein è stata fino a un decennio fa al potere nelle forze armate e nell'amministrazione. Sia la Siria che l'Iraq oggi sono degli ex Stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografica e nessuno né in Occidente né in Medio Oriente, a parte l'Isis, ha un piano politico alternativo al mantra dell'unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale.
Siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale, oppure si deve affrontare la balcanizzazione del Medio Oriente. Gli europei, che hanno assistito senza fare nulla alla disintegrazione della Jugoslavia, sono in materia degli esperti. In Siria per mantenere in vita lo stato si deve trattare con il regime alauita: continuare a ripetere che Bashar Assad deve andarsene come fanno americani, europei, arabi e turchi, non serve e non è servito a nulla. Il crollo secco di un regime, come in Iraq e in Libia, trascina il Paese in un'anarchia ancora più profonda e in un caos che fanno soltanto il gioco del Califfato. In Iraq l'unica via è quella di riportare i sunniti al governo e dentro le stanze del potere. Rifare l'esercito con ufficiali sunniti nei posti di comando per evitare che intere divisioni si sciolgano come gelati al sole senza combattere davanti all'avanzata di alcune centinaia di miliziani. La soluzione di armare i peshmerga è utile soltanto a tamponare la situazione: i curdi possono difendere il loro territorio ma non imporre l'ordine nel resto dell'Iraq. Sono una minoranza non troppo popolare e per di più non araba.
La soluzione politica, necessaria per rendere efficace anche quella militare, richiede l'impegno delle potenze straniere che stanno combattendo da diversi anni una guerra per procura in Siria e in Iraq. Anche per questo il Califfato si affronta soltanto agendo sui due fronti. Le monarchie del Golfo e la Turchia sostengono i sunniti che combattono in Siria, l'Iran e gli Hezbollah libanesi, insieme alla Russia, sono a fianco degli alauiti siriani e del governo sciita di Baghdad. L'Iran, che sta negoziando sul nucleare, ha già compiuto un passo significativo in Iraq scaricando il fallimentare primo ministro Nouri al Maliki. La Turchia deve bloccare il passaggio dei jihadisti alle sue frontiere e le monarchie del Golfo prosciugare i fondi elargiti ai movimenti radicali: mentre il Califfato oggi si autofinanzia, Qatar e Arabia Saudita si fanno concorrenza per foraggiare i loro protetti. La nascita del Califfato tra Iraq e Siria non è esattamente una buona notizia per queste monarchie assolute, sostanzialmente anti-democratiche che l'Occidente si ostina ad appoggiare rifornendole di armi in cambio di petrolio, commesse e investimenti. Come non era per loro una buona notizia l'ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto: e non a caso Riad sostiene a mani piene (di dollari) il generale Al Sisi. Se si fa un colpo di stato popolare in Egitto per far fuori Morsi, eletto dalle urne, si può anche combattere un Califfo che non ha votato nessuno.
Ma c'è anche l'altra soluzione. Lasciare che il Califfato faccia il suo corso, annientando le minoranze religiose, sfidando l'Occidente e i regimi avversari per frantumare la regione. Adesso ci appare una soluzione orribile ma siamo sicuri che questa alternativa qualche mese fa non sia stata accarezzata in più di qualche cancelleria? Un articolo e una mappa pubblicati dal New York Times il 29 settembre 2013 - il Califfato era già in piena azione - prendevano in considerazione la possibilità che i conflitti e le rivolte in corso potessero provocare la frammentazione di alcuni stati arabi in unità più piccole. L'articolo di Robin Wright, ex corrispondente a Beirut ed esperta di relazioni internazionali, scatenò allora accesi dibattiti negli Stati Uniti mentre in Medio Oriente nascevano ipotesi su un nuovo piano dell'Occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli. Congetture? A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, diceva qualcuno.

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