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Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2014 alle ore 10:48.
L'ultima modifica è del 25 agosto 2014 alle ore 10:56.

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Fino a pochi anni fa era una carta da giocare per rendere il curriculum più accattivante. Oggi, invece, una buona (e ancor meglio professionale) padronanza dell'inglese è un requisito indispensabile per trovare lavoro. Imprenditori, direttori del personale e docenti concordano: un inglese fluente, parlato e scritto, in tempi di assunzioni con il contagocce, può fare la differenza. Scuola e università si stanno attrezzando, ma secondo le classifiche internazionali l'Italia continua ad arrancare.

«In un momento in cui la domanda supera abbondantamente l'offerta – sottolinea Paolo Iacci, vicepresidente di Aidp, l'associazione dei direttori del personale - un'ottima conoscenza dell'inglese può essere decisiva». Il discorso vale per le multinazionali, dove secondo un recente sondaggio circa il 55% dei dipendenti comunica in inglese, ma sempre più spesso anche per le imprese di più piccole dimensioni proiettate sui mercati internazionali (si veda l'articolo a fianco). «La vera novità – prosegue Iacci – è che oggi questo requisito è richiesto non solo per gli aspiranti manager, ma anche per gli impiegati e i liberi professionisti».

Tra i settori a più alto utilizzo dell'inglese c'è quello della finanza. Fin dal 2005, anno dell'acquisizione della tedesca Hvb, per Unicredit la lingua è diventata una sorta di idioma ufficiale che consente ai vari istituti del gruppo presenti in 17 Paesi di comunicare tra loro e con la holding. Da allora tutta la documentazione viene redatta sia in inglese che nella lingua del Paese di origine della banca interessata. Anche per Intesa Sanpaolo, con presidi in 29 paesi e 1400 sportelli all'estero che fanno capo alle controllate, l'inglese è la "lingua franca" delle comunicazioni e delle relazioni con gli investitori istituzionali.

Per avere maggiori chances il "bollino" di una certificazione – come il First Certificate o il Toefl - salta subito all'occhio. Vietato, però bluffare. «Sempre più spesso – dice il presidente dell'Associazione direttori risorse umane Gidp/Hrda, Paolo Citterio – il colloquio di lavoro prevede ormai una parte di conversation. A volte persino la convocazione avviene in inglese». Qual è l'identikit del candidato ideale? Citterio non ha dubbi: «Chi è in grado di esibire un fluent English e si è laureato nei tempi previsti, indipendentemente dalla votazione».

Il mercato, insomma, richiede requisiti precisi, ma l'Italia sul fronte linguistico procede a passo lento. Secondo la classifica «Language Knowledge» solo il 12% degli italiani parla inglese contro il 52% di svedesi e danesi e il 30% di tedeschi. L'ultimo rapporto di Ef (Education First) mostra che negli ultimi sei anni la conoscenza è leggermente migliorata di circa due punti, ma il Paese resta al trentaduesimo posto, a metà della classifica e con un basso livello di competenza.

Per colmare il divario la scuola cerca di correre ai ripari. Il nuovo anno scolastico segnerà il graduale debutto dell'insegnanento di una materia in inglese al quinto anno di licei e istituti tecnici. Anche l'università ha un volto più globale. Nell'anno accademico 2014/2015 (si veda la guida del Sole 24 Ore, www.ilsole24ore.com/universita) sono 142 i corsi interamente in inglese attivati in 39 atenei, dieci in più rispetto al 2013. Al Politecnico di Milano ben 29 lauree su 34 saranno in questa lingua. «Questo idioma - afferma Giuliano Noci, prorettore del polo territoriale cinese, delegato del rettore per la Federazione Russa - è fondamentale per entrare nel mondo del lavoro. Oltre a un ottimo livello di conoscenza della lingua per lavorare in team internazionali occorre sviluppare anche una capacità di fare mediazione culturale, per decodificare aspetti legati alla cultura degli altri Paesi che hanno un impatto sul lavoro». Uno strumento in più per affrontare la concorrenza sempre più agguerrita dei Paesi emergenti.

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