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Questo articolo è stato pubblicato il 26 agosto 2014 alle ore 06:37.
L'euro continua a calare. La valuta comune è brevemente scesa sotto quota 1,32 dollari ieri, a 1,3182 per poi risalire di nuovo verso 1,32, da 1,3246 di venerdì. Il cambio effettivo - un indice verso le maggiori valute - è ora a 101,38, un livello non visto da settembre 2013, anche se ancora superiore alla media storica (a quota 100,44).
È stata la politica monetaria, ancora una volta, a dominare il mercato. Il discorso di venerdì di Mario Draghi, presidente della Bce, al simposio della Fed di Kansas City a Jackson Hole ha particolarmente impressionato i mercati. Gli operatori del valutario - e, più in generale, tutti gli investitori - hanno tratto da un piccolo dettaglio del suo discorso l'impressione che la Bce potrebbe fare di più - e in tanti puntano sul desiderato quantitative easing, gli acquisti di titoli di Stato - prima di quanto previsto.
È un cambio di aspettative molto forte. Fino a qualche giorno fa gli analisti erano convinti che la politica monetaria avrebbe atteso le prime iniezioni di liquidità condizionate ai prestiti alle imprese (i Tltro), previste a settembre e dicembre, e comunque la fine degli esami sui bilanci delle banche (l'Asset quality review, Aqr). Ora, invece, l'idea è che possa decidere di fare di più, prima.
Ad aver pesato è stato il riferimento di Draghi ad aspettative di inflazione che «hanno mostrato un declino significativo ad agosto», una frase "improvvisata", aggiunta cioè al testo scritto e ufficiale del suo intervento diffuso da Francoforte (e ancora presente, senza correzioni, sul sito della banca centrale). Già all'inizio del mese il presidente della Bce aveva parlato di aspettative a cinque anni all'un per cento, un livello bassissimo rispetto all'obiettivo di inflazione del 2% "nel medio termine" (che dovrebbe corrispondere ai due anni). Il riferimento a ulteriori peggioramenti nelle settimane successive ha aperto nuovi scenari.
La flessione dell'euro in ogni caso è benvenuta dalla Bce, se non voluta. Oltre che a insistere sulle aspettative, venerdì Draghi aveva anche elaborato una tesi già espressa in conferenza stampa: i mercati hanno capito - e il presidente ha mostrato due grafici a sostegno di questa idea - che la politica monetaria sarà espansiva più a lungo in Eurolandia che negli Stati Uniti.
La conclusione - implicita perché venerdì Draghi non ne ha parlato - è che l'euro, sostenuto da rendimenti meno favorevoli, è destinato a calare verso il dollaro, spingendo prezzi all'importazione, esportazioni e crescita. La flessione, inattesa nelle sue proporzioni, dell'indice Ifo tedesco ha sostenuto la corrente di vendite di valuta comune.
Il discorso del presidente della Fed, Janet Yellen, ha sembrato confermare queste attese. Il quadro disegnato venerdì sull'economia americana è apparso più bilanciato, ancora aperto a scenari diversi e persino opposti - e così sono state le interpretazione - ma il risultato sui mercati è stato una corrente di acquisti di dollari che si è apprezzato verso tutte le valute. Il suo cambio effettivo è ormai ai livelli di febbraio, dopo un rialzo dell'1,5% nell'ultimo mese.
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