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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2014 alle ore 06:38.

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Alberto
Negri C'è un triangolo di ferro in Medio Oriente, tra Turchia, Iran e Israele, gli unici veri stati sopravvissuti alla disgregazione dell'area, e prima ancora a crolli di imperi, rivoluzioni e guerre decennali. La Turchia è un Paese sunnita ma con forti minoranze come quella degli aleviti (10-12 milioni), musulmani eterodossi con spiccate tendenze al laicismo. Erdogan, che festeggia l'ascesa alla presidenza, deve tenere conto di un Paese nato dal secolarismo di Ataturk.
Anche l'Iran è uno stato multireligioso e multietnico, composto da persiani, arabi, azeri, armeni, che rappresenta, dopo la rivoluzione del 1979, il faro del mondo sciita. Israele non fa eccezione: è uno stato ebraico ma con oltre un milione di arabi.
È dalle relazioni dentro questo triangolo che può ripartire il Medio Oriente. In «Profondità strategica», il libro del nuovo premier turco Ahmet Davutoglu, troviamo dettagliate descrizioni dei rapporti tra gli Stati mediorientali ma nella sostanza sono questi tre, insieme all'Egitto, i protagonisti. Davutoglu sa perfettamente che Ankara in questi anni si è sbilanciata: ha sostenuto i Fratelli Musulmani in Egitto e in Libia, Hamas in Palestina e i jihadisti anti-Assad.
È mai possibile che la Turchia, bastione della Nato, appoggi gli estremisti islamici? Evidentemente no, la Turchia deve rientrare nel campo occidentale che a sua volta deve decidere cosa vuole davvero: la disgregazione di Iraq, Siria e Libia, oppure una stabilizzazione con la cooperazione delle tre potenze regionali. Per sconfiggere il radicalismo islamico la Turchia deve essere in prima linea. Israele è il caso più intricato. Come scrive il quotidiano Haaretz lo Stato ebraico rischia di essere inghiottito dal marasma mediorientale, non tanto dal punto di vista militare quanto da quello ideologico: gli ebrei non sono una setta ma si stanno comportando come se lo fossero. Israele è uno stato democratico ma la sua è una democrazia selettiva, applicata a una parte della popolazione di cui ha in mano il destino. Non è con il tiro al bersaglio su Gaza che risolve la questione palestinese, così come non è armando gli arabi, come fanno Iran e Turchia, che si arriva a una soluzione.
Turchia e Israele devono tornare a parlarsi come in passato. La bandiera nera degli islamici sventola ai confini della Turchia, avanza sul Golan a Quneitra, a un tiro di schioppo da Israele, mentre quella del Califfato è già comparsa sulle spiagge di Gaza e in Libano. È meglio confinare con Assad o con Abu Bakr Baghdadi?
L'Iran di questi tre forse è il Paese più fortunato. La Turchia oscilla tra un malinconico revanscismo e i sogni di restaurazione neo-ottomana. Israele è nato dopo l'Olocausto, emblema dei mali del ventesimo secolo. L'Iran occupa più o meno questi confini da tremila anni. Un popolo non arabo che si è inventato secoli fa una sua versione dell'Islam. Ma gli iraniani, il cui ministro degli Esteri Javad Zarif sta venendo anche a Roma, per essere credibili devono neutralizzare Hamas: ne sarà felice la stessa opinione pubblica iraniana, in genere ostile sia agli arabi che ai quattrini spesi per loro.
Come si fa a trattare con Turchia e Iran? Basta smettere di chiedersi se c'è o meno un Islam moderato. L'Islam moderato non esiste, così come non esiste un cristianesimo moderato: le religioni sono basate su dogmi non negoziabili. Ci sono però musulmani pragmatici. Con questi può essere raggiunta un'intesa per battere il Califfato e costruire un nuovo Medio Oriente.
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