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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2014 alle ore 06:37.
di Rita Fatiguso
PECHINO. Dal nostro corrispondente
C'è voluta una frazione di secondo ai giornalisti presenti domenica pomeriggio nella Great Hall of People per intuire l'imminente naufragio della speranza di una Hong Kong governata da poteri eletti democraticamente.
Fine della corsa per gli illusi della Regione amministrativa speciale. In 12 fitte paginette Li Fei, vice segretario generale dello Standing committee del Congresso nazionale del popolo, seduto tra Lou Jiwei, potente ministro delle Finanze e Wang Chao Ying, altro nume tutelare dell'economia, ha comunicato urbi et orbi che, a 17 anni dal ritorno di Hong Kong alla Cina, le cose rimarranno, in buona sostanza, tali e quali. Il suffragio universale è, spiega Li Fei, un concetto da rivedere alla luce delle attuali necessità della Cina, i cambiamenti devono essere mossi da prudenza e costanza. Anche gli abitanti di Hong Kong sono divisi, tra chi vorrebbe cambiamenti drastici e chi ne teme le conseguenze, ma la semplice introduzione nella Draft decision dello standing committee dell'espressione "suffragio universale", di per sé, è un'enorme novità. Entro il 2016 il successore di Leung Chun-ying, chief executive di Hong Kong, sarà scelto tra due-tre candidati che a loro volta abbiano ricevuto oltre il 50% dei voti del comitato elettorale composto da 1.200 persone rappresentative di quattro settori diversi della società. Nel 2017 si voterà.
Nell'articolata spiegazione in più frasi si colgono elementi di disappunto. Ciononostante, Li Fei ieri è volato a Hong Kong per spiegare ulteriormente, in un'ennesima conferenza stampa, la decisione di Pechino, ma è stato accolto da manifestazioni di protesta che la polizia ha domato in maniera spiccia, ricorrendo anche all'uso di peperoncino urticante. Ma in contemporanea è successo ben altro. Si è realizzata la prova generale del grande progetto varato dal premier Li Keqiang in aprile: realizzare un collegamento cross border, un ponte stabile tra le due borse di Hong Kong e di Shanghai. Con 500mila yuan in conto titoli si potrà investire a Hong Kong da Shanghai e viceversa, superando anche il sistema delle quote assegnate ad operatori qualificati.
Mainland China e Hong Kong separate dalla politica trovano magicamente l'unità nella finanza, l'obiettivo comune, cementato da una buona dose di nazionalismo, è quello di creare in Asia il più grande centro finanziario capace di offuscare tutte le altre borse, in testa quella giapponese, grazie a un volume di 23,5 miliardi di yuan (3,8 miliardi dollari) di acquisti giornalieri tra grandi mercati azionari.
C'è da crederci. Il test simulato su una decina di titoli è stato seguito da 97 intermediari che hanno lavorato senza sosta e che da soli totalizzano l'80% delle transazioni.
Mentre le tensioni tra Regione speciale e casa madre si acutizzano, il movimento Occupy Central trova linfa per nuove proteste di massa, la differenza di valore tra le azioni cinesi quotate a Hong Kong e Shanghai in tre mesi si è ridotta ai minimi. Segno di una convergenza di interessi, ben più forte delle ragioni della buona politica, che toccherà l'acme a ottobre, in occasione del matrimonio vero e proprio tra le due piazze finanziarie.
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