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Questo articolo è stato pubblicato il 03 settembre 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 03 settembre 2014 alle ore 06:52.

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Con il suo elenco di orrori, dalle decapitazioni alla pulizia etnica e settaria con ritmi da genocidio, l'agenda barbarica del Califfato sconvolge anche quella europea e sfida ancora una volta l'America. Non si può ignorarla o pensare ad altro. La decapitazione del giornalista americano freelance Steven Sotloff, dopo quella di James Foley, e la minaccia di uccidere il collega britannico David Cawthorne Haines, sono un richiamo lacerante a una realtà militare e politica che deve essere fermata, quella dello Stato Islamico tra Siria e Iraq, ma anche alle nostre coscienze.
Le conseguenze di una mancata sconfitta dell'Isis potrebbero trascinare in un vortice l'intera regione e la stessa Europa che già freme per la crisi ucraina. Serve davvero una coalizione internazionale tra l'Occidente e gli Stati della regione per bloccare il Califfato: ci stanno lavorando gli Stati Uniti ma anche Paesi che finora si sono combattuti in Siria e in Iraq una guerra per procura, come l'Iran e l'Arabia Saudita. L'arrivo oggi a Roma del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif è un'opportunità per esplorare quali sono le chance per cambiare rotta. Un'eventuale alleanza internazionale potrebbe essere guidata da Washington, già impegnata nei bombardamenti aerei, e comprendere Teheran, Riad e le monarchie del Golfo Persico, oltre alla Turchia e al resto della Nato che si prepara al vertice in Galles.
Ma la svolta è possibile soltanto se gli attori locali riusciranno a mettere da parte le rivalità e gli interessi che hanno fatto esplodere e implodere il Medio Oriente. Le monarchie del Golfo e la Turchia sostengono i sunniti che combattono in Siria, l'Iran e gli Hezbollah libanesi, insieme alla Russia, sono a fianco degli alauiti siriani e del governo sciita di Baghdad. L'Iran, che sta negoziando sul nucleare, ha già compiuto un passo significativo in Iraq scaricando il fallimentare primo ministro Nouri al Maliki. La Turchia deve bloccare il passaggio dei jihadisti alle sue frontiere e le monarchie del Golfo prosciugare i fondi elargiti dalle fondazioni religiose ai movimenti radicali: mentre il Califfato oggi si autofinanzia, Qatar e Arabia Saudita si fanno ancora concorrenza per foraggiare i loro protetti, per altro senza gran risultati sul campo.
Molti arabi hanno visto nello Stato Islamico una carta da giocare per contrastare l'influenza iraniana in Iraq, Siria e Libano ma ora si accorgono che il Califfato può diventare una minaccia anche per la legittimistà dei loro sistemi di stampo assolutista. Se l'Arabia Saudita ha sostenuto il colpo di stato del generale Al Sisi in Egitto per sbalzare Morsi, un presidente regolarmente eletto, può fare uno sforzo anche per elimanre il Califfo Abu Bakr Al Baghdadi.
In Medio Oriente si sgretolano stati nazionali che ormai esistono sulla carta ma si stanno inabissando pure gli ultimi brandelli di umanità e di giustizia. La barbarie dello Stato islamico, se non verrà fermata, tra qualche tempo penetrerà profondamente in queste società sfibrate da conflitti etnici e settari e servirà da giustificazione per ogni tipo di azione, anche la peggiore. È così che lo Stato islamico ha potuto progredire e trovare consensi tra i sunniti siriani e iracheni. Il Califfato propone un modello a prima vista inaccettabile ma che risponde sfortunatamente agli standard di una regione dove non si stanno affrontando le cause che hanno favorito la sua nascita.
Il segnale dell'insostenibile malessere arabo erano state le rivolte del 2011: ma da tempo ci stiamo accorgendo che queste sollevazioni erano un sintomo non la cura. Il potere assoluto dei dittatori era tale da oscurare i problemi molteplici e radicati di queste autocrazie che con la forza della repressione e il consenso mirato di alcuni strati sociali, tribali e settari, tenevano insieme Paesi fragili e vulnerabili. Il Califfato li ha divorati e ora inghiotte, senza remore, le vite degli innocenti.
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