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Questo articolo è stato pubblicato il 16 settembre 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 16 settembre 2014 alle ore 07:49.

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Un altro fallimento a Montecitorio e molti interrogativi senza risposta. Ricondurre tutto all'assenteismo del lunedì non convince. C'è un «non detto» dietro la mancata convergenza sui due giudici della Corte. Un sottinteso che conduce a Forza Italia e pone la questione cruciale: quanto è sostenibile il patto Renzi-Berlusconi e quanto invece esso mostra indizi di logoramento? Il punto è che Donato Bruno, il nuovo candidato di Berlusconi per la Corte Costituzionale, non è Antonio Catricalà.

L'ex presidente dell'Antitrust incarnava il senso politico-istituzionale della fase attuale, ossia l'intesa «di sistema» fra il partito di Renzi e il centrodestra berlusconiano.
Viceversa proprio il ritiro del giurista ha incrinato lo schema e ha portato a galla la sostanziale fragilità di questa fase estrema del berlusconismo. La candidatura di Bruno è emersa in Parlamento e fotografa lo scollamento in atto in quella che fu un tempo la monarchia assoluta di Arcore. Oggi il re è prigioniero dei vari feudatari ed è costretto a far buon viso a cattivo gioco: coopta Bruno, ne fa il proprio candidato e così si presenta alle votazioni parlamentari. Resta la simmetria con Luciano Violante, sostenuto dal centrosinistra senza sbandamenti, e quindi in apparenza l'accordo «di sistema» è salvo. Ma le cose non stanno così e lo abbiamo visto ieri sera.

La tormentata elezione dei due giudici autorizza i sospetti sul possibile sfaldamento del singolare equilibrio su cui si fonda il governo Renzi, vale a dire una maggioranza formale ristretta e una non-opposizione di Forza Italia volta a delineare una specie di semi-maggioranza allargata. Non a caso circolano voci di un Berlusconi tentato di prendere le distanze da Renzi sui temi sociali ed economici. I dati dell'Ocse sono espliciti e drammatici, quasi un lugubre rintocco: sembrano offrire una solida sponda alla linea critica di Renato Brunetta, finora autorizzata a Palazzo Grazioli soprattutto per onore di bandiera. E non va ignorata nemmeno l'iniziativa dell'altro giorno, quando Berlusconi ha dato copertura alla protesta dei poliziotti anti-governo.
S'intende che in condizioni normali l'ex presidente del Consiglio avrebbe tutto l'interesse a tenere in vita il rapporto politico con Renzi il più a lungo possibile. Ma non sempre ciò che si vuole è anche praticabile, specie se il quadro generale del paese si deteriora. Affinché l'intesa a due funzioni serve che il vertice eserciti un ferreo controllo sui parlamentari. A Renzi finora è riuscito; a Berlusconi, non più. Almeno questo è ciò che insegna la vicenda in corso.

L'"impasse" a Montecitorio è quindi grave in sé e rivela che qualcosa scricchiola. Il centrodestra è davanti al solito bivio e deve decidere dove andare. Da un lato c'è la via di un maggiore sostegno a Renzi nei passaggi difficili dei prossimi mesi: non solo per fare la legge elettorale e la riforma del Senato, ma per attuare riforme economiche certo dolorose. Dall'altro il sentiero di un'opposizione scomposta e priva di strategia. La prima ipotesi aiuta a ricostruire il centrodestra, la seconda riporta tutto in alto mare.
Di sicuro gli accordi Renzi-Berlusconi non possono a questo punto non avere un respiro che vada oltre la tutela degli interessi e del piccolo cabotaggio politico. Se fosse solo questo, avrebbero vita breve. Ecco perché lo psicodramma della Consulta merita la massima attenzione.

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