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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2014 alle ore 06:38.

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La guerra al Califfato non si deve chiamare guerra, non prevede truppe sul terreno, almeno ufficialmente, e verrà condotta da un'ampia coalizione internazionale. Tre bugie in una che Obama deve sostenere se vuole ottenere dal Congresso 500 milioni di dollari da destinare all'opposizione siriana "moderata".
Come mai queste ardite schiere filo-occidentali e anti-Assad finora non siano state foraggiate in maniera adeguata è un dettaglio: forse sono del tutto inconsistenti. Tanto è vero che il Pentagono parla di formare in alcuni mesi un mini-esercito di 5mila uomini, comunque insufficienti a sloggiare i 30mila feroci combattenti del Califfato.
Oltre a quello interno, Obama ha altri tre fronti che lo impegneranno duramente: l'Iraq, la Siria e gli stessi alleati, che non appaiono così numerosi, affidabili e volonterosi come vuol fare credere. Per questo è stato violato un tabù: "boots on the ground", stivali sul terreno. Il capo di stato maggiore Martin Dempsey, alla vigilia del viaggio di Obama al CentCom di Tampa, si è detto pronto a chiedere al presidente di autorizzare l'invio di truppe nel caso fosse necessario. Quando, per esempio, si dovrà combattere la battaglia per riprendere Mosul e affrontare i jihadisti in zone densamente popolate.
Ma di stivali americani in Iraq ce ne sono già parecchi, con centinaia di uomini dei corpi di élite destinati ad assistere il comatoso esercito iracheno che dovrebbe affiancare i peshmerga curdi e le milizie sciite contro l'Isis. «La domanda - scrive David Ignatius sul Washington Post - è se Obama si deciderà a dirlo pubblicamente o resterà nel suo ruolo preferito di comandante in capo delle operazioni segrete».
Gli eventi corrono più veloci dei discorsi del presidente che a Tampa in Florida ha incontrato il comandante del CentCom, Lloyd Austin, e i generali che stanno approntando il piano per attaccare lo Stato Islamico. «Non sarà un'altra guerra in Iraq», ha ribadito Obama, sottolineando che il compito principale degli Stati Uniti saranno i raid aerei (e non i combattimenti di terra), insieme al coordinamento di una coalizione che include già più di 40 Paesi.
Ma l'intervento americano potrebbe avere già avuto effetti controproducenti in Siria. Dopo la solidarietà all'Isis espressa dalle costole di Al-Qaeda in Maghreb e Yemen, non è chiaro se gli altri gruppi jihadisti preferiranno dare priorità alla lotta contro il regime siriano o alla guerra Usa contro il Califfato. I jihadisti, che hanno subito pesanti sconfitte da parte dell'Isis, avrebbero stipulato una tregua con il Califfato nella regione di Damasco, una notizia che segue l'annuncio di Jabat Al Nusra dell'occupazione dell'intero Golan, dove si è impadronita di armi, uniformi e veicoli dei Caschi blu Onu, in precipitosa ritirata.
In poche parole Israele adesso confina con Al-Qaeda, e questa non sembra una buona notizia per chi spera di trovare pedine da manovrare contro il Califfato e Bashar Assad. Forse neppure al Pentagono hanno idea di quante guerre si devono combattere in Siria.
L'unica ipotesi realistica è di acquistare con i soldi del Congresso la temporanea fedeltà dell'opposizione che non vuole essere fagocitata dal Califfato. Tenendo presente un vecchio detto: gli arabi non si comprano, si affittano.
Ma pensare che si possa battere l'Isis e al tempo stesso indebolire Assad è uno scenario azzardato, anche se sostenuto dall'ex ambasciatore a Damasco Robert Ford, celebre perché nel 2011 si unì agli insorti di Hama. Assad, secondo lui, doveva cadere in poche settimane. Con i soldi americani e nuove armi i ribelli non attaccheranno solo l'Isis ma anche i soldati di Damasco e a questo punto la coalizione anti-Califfato potrebbe trovarsi un nuovo nemico che considera qualsiasi operazione aerea sul suo territorio un'aggressione.
Quanto agli alleati che in Iraq dovrebbero fare il lavoro sporco sul terreno, se ne vedono ben pochi. Le esigue schiere dei peshmerga curdi ma soprattutto le milizie sciite con le quali gli americani hanno detto di non volere collaborare. Ma questo, piaccia o meno, è oggi l'unico esercito motivato che può schierare Baghdad contro il califfo sunnita Baghdadi. Al sanguinoso gioco settario, cominciato in Mesopotamia con la caduta di Saddam nel 2003, non c'è mai fine.
C'è poi il capitolo Turchia, che potremmo definire l'ex bastione della Nato. Un «non alleato» - secondo gli stessi americani e l'ex ambasciatore ad Ankara Frank Ricciardone - che ha rifiutato l'ipotesi di un intervento armato nonostante abbia 1.200 chilometri di ribollenti frontiere con Siria e Iraq. Non solo il presidente Erdogan ha respinto le richieste di Obama ma si prepara a ospitare la leadership dei Fratelli Musulmani, detestati dalle monarchie del Golfo (tranne il Qatar). Alleati riluttanti, divisi e combattenti inaffidabili: non è con questa formidabile compagnia che si vince una guerra. L'America dovrà contare sulle sue forze.
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