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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2014 alle ore 20:01.

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(Epa)(Epa)

La liberazione dei 46 ostaggi turchi, tra i quali anche il console a Mosul, da 100 giorni nelle mani dei jihadisti del Califfato può apparire una mistero. Ma fino a un certo punto. Le autorità turche negano che sia stato pagato un riscatto o che Ankara abbia accettato "condizioni" dell'Isil. L'operazione, ammpiamente coperta dai media turchi, è stata condotta dal premier Ahmet Davutoglu che ha raggiunto gli ostaggi a Sanliurfa, sul confine con la Siria, per scortarli in aereo a Ankara, dove sono stati accolti da una folla esultante di familiari e simpatizzanti dell' Akp del presidente Tayyep Erdogan.


Un grande successo per il partito islamico turco dovuto a due ragioni: una diplomatica e l'altra di politica interna e tribale. Gli ostaggi sono stati rilasciati, secondo un portavoce del Califfato, perché la Turchia non partecipa alle operazioni militari contro l'Isil ma soltanto alle azioni di tipo umanitario: ieri sono stati aperti i confini con la Siria e in 48 ore sono passati dall'altra parte 60mila curdi in fuga dalle milizie del Califfato.

L'altro motivo è che sono intervenuti a mediare i capi di due tribù arabe di Harran che hanno buone relazioni con gli uomini del Califfato. I capi tribali sono stati contattati dai servizi turchi del Mit per la trattativa che è andata avanti diverse settimane: negli oltre tre mesi del sequestro gli ostaggi, catturati durante la caduta di Mosul, sono stati spostati nove volte. Secondo il quotidiano Hurriyet gli ostaggi sarebbero comunque rimasti sempre nella zona di Mosul, quindi trasferiti poco prima della liberazione a Raqqa, "capitale" siriana dell'Isil, e poi rilasciati al confine fra Siria e Turchia al valico di Tel Abyad per un'esigenza posta dai jihadisti.

Ma il fatto che non ci siano stato combattimenti per liberarli e il coinvolgimento dei capi tribali arabi sunniti sono circostanze indicative di un negoziato tra i servizi turchi e il Califfato. Su che basi? Se non ci sono stato scambi di denaro, quasi sicuramente i jihadisti hanno chiesto alcuni "favori": il libero passaggio dei feriti, per esempio, oppure il tacito consenso ad aprire una via di fuga in caso di necessità.

Da tempo il governo turco è accusato dall'opposizione e dalla stampa internazionale di avere aiutato in Siria i gruppi jihadisti fra cui anche l'Isil. Ankara ha sempre negato ed Edogan qualche giorno fa ha duramente attaccato il New York Times per un reportage sul reclutamento di combattenti in una moschea di Istanbul.

Ma di recente anche l'ex ambasciatore Usa ad Ankara, Francis Ricciardone, ha confermato in un'audizione al Congresso che la Turchia ha collaborato con i jihadisti nel tentativo di abbattere Bashar Assad. Non è ancora chiaro se il ritorno in patria dei 46 ostaggi turchi cambierà qualcosa nella posizione di Ankara verso la coalizione anti-Isil che gli Usa stanno faticosamente cercando di costituire.

La Turchia _ membro storico della Nato _ ha rifiutato finora di partecipare a qualsiasi azione militare e anche di autorizzare l'uso della base di Incirlik, come chiedeva Washington, invocando la questione degli ostaggi e affermando di avere le mani legate.
Gli ostaggi sono stati una sorta di alibi per Ankara per non aderire alla guerra contro il Califfato ma ora non regge più.

La svolta è attesa tra qualche giorno, quando Erdogan volerà a New York per l'assemblea Onu dove incontrerà Barack Obama. Da qui potrebbe venire l'annuncio che la Turchia realizzerà una "fascia di sicurezza" al confine con la Siria. La diplomazia americana ha definito recentemente la Turchia una sorta di "non alleato" e anche il sulfureo Erdogan, sotto la pressione di Washington, forse deciderà di rispolverare lo scudo dell'Alleanza Atlantica.

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