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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2014 alle ore 08:14.

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Il presidente francese François Hollande è stato di parola. Giovedì aveva annunciato di aver dato la sua autorizzazione per effettuare raid aerei in Iraq contro le milizie jihadiste dello Stato islamico (Isis). E di volerlo fare rapidamente. Ieri è entrato subito in azione. «Questa mattina alle 9 e 40 - ha spiegato un comunicato diffuso dall'Eliseo - aerei Rafale hanno effettuato un primo bombardamento contro un deposito logistico dei terroristi di Daech (lo Stato islamico, ndr) nel nord-est dell'Iraq. L'obiettivo è stato colpito e completamente distrutto».
La Francia diventa così il primo alleato della Casa Bianca a colpire l'Isis con la sua aviazione. Da quando Washington ha deciso di agire militarmente - a metà agosto - i caccia americani hanno compiuto 170 raid. In verità i risultati non sono entusiasmanti. L'Isis ha sì perduto alcune posizioni - per quanto non strategiche - ma controlla ancora un territorio molto esteso tra la Siria e l'Iraq.
Nella coalizione internazionale che combatterà gli jihadisti, a cui avrebbero aderito più di 40 Paesi, figurano anche diversi partner occidentali. Ma quanti alla fine si assumeranno la responsabilità di bombardare l'Isis sfidando le minacce di rappresaglie?
«L'Italia - ha spiegato il ministro degli Esteri Federica Mogherini giunta a New York per partecipare a una riunione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu sull'Isis - sta ragionando sulla disponibilità a partecipare sul versante militare in termini di addestramento, sostegno logistico ed eventualmente di rifornimento in volo. Ma non alla partecipazione di operazioni come quelle che Francia e Usa stanno svolgendo». Il futuro capo della diplomazia europea ha precisato che «non ci sono minacce specifiche per l'Italia» da parte dell'Isis.
Sarà una guerra - ritengono i vertici del Pentagono - che non si vincerà soltanto con i bombardamenti aerei. Sarà indispensabile una robusta aggressione con truppe di terra, ben addestrate, pronte a combattere strada per strada nei centri urbani. La parte più difficile viene ora. Ogni giorno che passa si profila la necessità di un intervento più diretto degli Stati Uniti. Un articolo pubblicato dal sito del New York Times ha spiegato il clima di confusione in merito alla campagna contro lo Stato islamico, precisando come la Casa Bianca ha «creato confusione su diverse questioni chiave, non ultima se l'offensiva necessiti di forze di terra americane». «Ritengo che questa coalizione sia la soluzione appropriata e che resterà valida», ha detto il capo di Stato maggiore Usa Martin Dempsey. «Ma se ci saranno minacce per gli Stati Uniti, allora andrò dal presidente per consigliargli di includere forze militari terrestri». Ipotesi che il presidente Barack Obama aveva in principio escluso.
Sul fronte degli alleati regionali, gli Usa hanno deciso di affidarsi ai peshmerga, le forze della regione autonoma del Kurdistan iracheno, all'esercito iracheno - che finora si è dimostrato impreparato - e a quelle tribù sunnite che, se incentivate in qualche modo, decideranno di rivoltarsi contro l'Isis. In Siria i partner che beneficeranno dell'addestramento militare americano saranno le forze del Libero esercito siriano (Fse), ovvero l'ala più moderata, ma certo non la più solida e organizzata nella costellazione delle milizie armate dell'opposizione, dove fanno la parte del leone gruppi salafiti e jihadisti.
Qualunque scenario presenta rischi e incognite. I curdi sono le forze più efficienti. Tuttavia è presumibile che, se le operazioni per liberare Mosul e le altre città andranno a buon porto, chiederanno delle dolorose contropartite a Baghdad. Come il diritto di vendere per proprio conto il petrolio estratto nel Kurdistan iracheno. O perfino rivendicare l'annessione di Kirkuk, città contesa con ricchissimi giacimenti di greggio che i curdi, davanti alla ritirata delle forze irachene, hanno subito occupato. Nell'ipotesi più estrema Erbil potrebbe chiedere l'indipendenza. Tutti e tre questi scenari piacciono poco a Washington. E non solo. Quanto all'esercito iracheno, dopo l'umiliante disfatta contro l'Isis, occorrerà ricostruirne le strutture e il morale. Per farlo ci vorrà del tempo. Ricordando poi che sarà decisivo ottenere il sostegno delle tribù sunnite. Se l'Isis ha conquistato grandi città e aree molto estese in pochi giorni è anche perché ha avuto il supporto logistico di parte della propalazione sunnita che, pur non condividendo i metodi brutali né l'ideologia degli jihadisti, da tempo si era rivoltata contro il Governo dell'ex presidente iracheno Nouri al Maliki. Senza i sunniti iracheni dalla parte della coalizione è improbabile che l'Isis venga sconfitto. Alcuni esperti del Pentagono credono che la campagna militare contro l'Isis possa durare almeno 36 mesi. La guerra sarà dunque difficile. E lunga. E le tre autobomba esplose ieri in Iraq - due a Baghdad (9 morti) e una a Kirkuk (8 vittime) -, nonché l'avanzata degli jihadisti contro i villaggi curdi nelle regioni settentrionali, della Siria sono un pessimo segnale.
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