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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2014 alle ore 11:32.
L'ultima modifica è del 22 settembre 2014 alle ore 14:15.

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Ashraf Ghani (Epa)Ashraf Ghani (Epa)

Non è quel processo democratico che ci si augurava - forse con troppo ottimismo - per il tormentato Afghanistan. Ma alla fine si è arrivati a un accordo, una soluzione di compromesso, una sorta di Governo di unità nazionale in teoria capace di scongiurare il pericolo, divenuto sempre più reale col passare dei mesi, che il paese sprofondasse nuovamente in un periodo di instabilità e violenze in cui talebani avrebbero avuto vita facile.

Ashraf Ghani, l'ex ministro delle finanze, è il nuovo presidente dell'Afghanistan. Lo sfidante, Abudllah Abdullah, ex ministro degli Esteri, assumerà un ruolo non ancora ben definito; chief executive - coordinatore del Governo - una formula ancor poco chiara per indicare che sarà lui a nominare il primo ministro dell'esecutivo che verrà. Il presidente resterà comunque l'uomo con i poteri più forti.

I due rivali, uno sostenuto dall'etnia pashtun, l'altro da quella tajika, erano ai ferri corti da quasi quattro mesi. Vale a dire da giugno, quando erano stati diffusi i risultati del ballottaggio, mai accettati da Abdullah. Alla fine i due rivali si sono lasciati andare a un tiepido abbraccio, dopo aver posto la firma sul documento, frutto di molte settimane di trattative, in presenza del controverso presidente uscente Hamid Karzai. Il quale si è congratulato con i due sfidanti, precisando o di «non aver avuto alcun ruolo nella sua definizione». Accusa che il candidato Abdullah, insieme a molti afghani, gli hanno sempre mosso. La cerimonia ufficiale di insediamento si svolgerà lunedì 29 settembre.

La storia, dunque, si ripete. Sembra che l'Afghanistan non sia capace di scindere quell'inossidabile connubio che ha sempre caratterizzato ogni voto dalla caduta del talebani, nel dicembre del 2001: vale a dire che un'elezione non può non essere avvelenata da un clima pesante di sospetti e accuse di brogli. Le presidenziali del 2009, fallimentari sul fronte della trasparenza, erano state segnate da colossali frodi trascinatesi per tre mesi. Dopo diversi mesi, uno dei due candidati in corsa Abdullah Abdullah, decise di abbandonare la competizioni, lasciando campo libero a Hamid Karzai.

Per come erano andate le cose, sembrava che questa volta ci fossero i presupposti per un processo elettorale, se non totalmente trasparente, comunque credibile. Il 5 aprile milioni di afghani si erano riversati alle. Era la prima volta nella storia del Paese che in un voto democratico avveniva un passaggio di poteri da un presidente all'altro. Considerando il contesto in cui si votava, le difficoltà logistiche, e le minacce dei Talebani, la risposta popolare era stata sorprendente. Quasi il 60% degli elettori aveva votato, un'affluenza superiore a ogni previsione Abdullah si era aggiudicato un netto margine di vantaggio, anche se non sufficiente a farlo vincere al 1° turno. Nel ballottaggio è accaduto l'inaspettato. Ghani viene dichiarato in grande vantaggio, poi vincitore, su Abdullah. Il quale, prima attonito e poi furioso, ha urlato alle frodi. La moltissime schede "fantasma" circolate durante lo scrutinio evidenziavano sin dall'inizio che qualcosa non era andato nel verso giusto. Le cose si stavano mettendo male. Ecco perché l'accordo di domenica , per quanto non sia la soluzione auspicata, è comunque un importante passo in avanti.

Dopo il giuramento, uno dei primi passi di Gahdani sarà la firma del tanto atteso accordo bilaterale sulla sicurezza con gli Usa (Bilateral Security Agreemen). Senza di esso, si rischierebbe un pericoloso vuoto di potere a pochi mesi dal ritiro delle truppe internazionali dall'Afghanistan, previsto per il 31 dicembre. Un periodo in cui gli insorti cercheranno di intensificare la loro offensiva. Il Bsa prevede dal 2015 una forza internazionale di supporto e assistenza al male organizzato esercito afghano. Doveva essere firmato dall'Esecutivo di Kabul già dalla fine del 2013. Ma Karzai si era rifiutato perché, tra l'altro, offriva una protezione giuridica particolare alle truppe straniere. Irritato il presidente americano Barack Obama aveva ribattuto che, se non fosse stato firmato, avrebbe ritirato tutti i soldati a fine anno, lasciando così il Paese in mano a un esercito incapace di contrastare i talebani.

È dunque comprensibile la soddisfazione mostrata dalla Casa Bianca, che in un comunicato ha precisato che l'accordo «aiuta a chiudere la crisi politica» e «riporta fiducia per il futuro» del Paese. Gli Stati Uniti, continua la nota, sono «pronti a lavorare con la prossima amministrazione per garantire il successo» di tale accordo. Visibile anche la soddisfazione del segretario di stato americano John Kerry, che ha lavorato per la riuscita dell'accordo: «I due candidati nel ballottaggio presidenziale hanno mostrato di avere realmente una levatura da statisti» e «hanno assicurato che la prima transizione democratica nella storia del loro Paese cominci con un progetto di unità nazionale», ha precisato. La strada, tuttavia, è ancora tutta in salita.

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