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Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2014 alle ore 12:48.

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Xi Jinping srotola il tappeto rosso ai sessanta capitalisti di Hong Kong, in testa Li Ka-shing, l'uomo più ricco di tutta l'Asia, arrivati nella capitale per discutere della Special administrative region (Sar) a tre settimane dal verdetto dello Standing committee dello State Council che ha tolto a Hong Kong ogni speranza di suffragio universale entro il 2017.
Gli animi sono più divisi che mai.

L'impressione è che a regnare, nei negoziati, sarà ancora una volta la prudenza, la voglia di stabilità: per la Cina la stabilità politica, per i magnati quella finanziaria. Tanto è vero che uno di loro avrebbe detto che «non si raggiunge il cielo con un solo balzo, ci vuole tempo». Musica per le orecchie di Xi Jinping, per il quale il dogma «one country, two rules» non si tocca. Fatto sta che i dignitari della finanza dovranno negoziare proprio in queste ore come gestire l'escalation di tensioni che caratterizza la vita di Hong Kong. Un sondaggio di una radio tv locale avrebbe dimostrato che un quinto degli abitanti davanti a troppe incertezze, minacce di occupazioni e affini starebbe pensando di fare le valigie, esattamente come quando nel 1997 Hong Kong tornò alla Cina dalla Gran Bretagna.
Da allora semmai le migrazioni hanno riguardato la direzione opposta e cioè Hong Kong, presa di mira da cinesi ricchi e da occidentali in cerca di una migliore qualità della vita rispetto a Pechino. Ricordiamo che un cinese di Mainland Cina ha bisogno di un passaporto speciale che certifichi gli arrivi, non più di due all'anno.

Da mesi gli attivisti di Hong Kong minacciano manifestazioni di piazza, una su tutte Occupy central with peace and love. Hanno preso d'assedio l'AsiaWorldExpo dove Li Fei, vice segretario generale del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo spiegava i motivi della decisione. La polizia avrebbe usato spray al peperoncino contro i manifestanti proprio fuori dai locali della conferenza stampa. La minaccia di occupazione della Borsa è ciclica. Ma la decisione di Pechino è chiara: entro il 2016 il futuro candidato a capo dell'esecutivo della Regione amministrativa speciale, qual è Hong Kong dal 1997, data del suo ritorno alla Cina dopo il protettorato della Gran Bretagna, dovrà avere il sostegno di almeno il 50% dei 1.200 membri del comitato per le nomine e sarà scelto tra due-tre candidati.

Pechino non vuole l'effetto domino: Chui Sai On è stato confermato alla guida della vicina Macao e di provincia ribelle con la quale fare i conti Pechino ne ha già una: Taiwan.
Quanto ai tycoon in visita a Pechino, dovranno garantire una cosa che manca alla Cina, come dimostra la quotazione a Wall Street di Alibaba: la riforma delle istituzioni finanziarie cinesi, che senza l'aiuto di Hong Kong è davvero una missione impossibile.

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