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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2014 alle ore 12:00.
L'ultima modifica è del 24 settembre 2014 alle ore 12:01.

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Il diritto del lavoratore a un'indennità proporzionata agli anni di servizio svolti risale al 1927 ed è figlio della Carta del lavoro, un'epoca quella fascista in cui non esistevano gli ammortizzatori sociali di oggi. Ipotesi di una sua liberalizzazione dopo la costituzione dell'attuale sistema della cassa integrazione, della mobilità e dell'indennità di disoccupazione, sono state evocate a più riprese, in particolare in coincidenza con il varo delle diverse riforme delle pensioni che si sono succedute negli ultimi vent'anni.
Dal 2007, anno del lancio della previdenza integrativa in Italia, ogni lavoratore dipendente deve decidere, entro sei mesi dalla data di assunzione, se destinare il proprio Tfr da maturare alle forme pensionistiche complementari oppure se lasciarlo in azienda. Nel primo caso fa una scelta irreversibile, nel secondo no. Anche successivamente il lavoratore può infatti decidere di destinare alla previdenza complementare il Tfr futuro, mentre il Tfr già maturato resta accantonato presso il datore di lavoro e sarà liquidato alla fine del rapporto di impiego.

La somma pagata dall'azienda al dipendente quando termina il rapporto, la famosa "liquidazione" si cumula accantonando anno dopo anno una quota pari al 6,91% dell'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso. E la somma raggiunta, al netto della quota maturata nell'ultimo anno, viene rivalutata sulla base di un tasso composto: 1,5% in misura fissa più il 75% dell'aumento dell'indice Istat dei prezzi al consumo rilevato a dicembre dell'anno precedente.

Se il lavoratore decide di non aderire a un fondo complementare di previdenza (è la maggioranza come vedremo tra poco) il suo Tfr prende due strade diverse a seconda della dimensione dell'azienda. Nelle imprese con meno di 50 addetti resta proprio nelle disponibilità del datore di lavoro, mentre per quelle più grandi finisce il fondo tesoreria costituito presso l'Inps.

C'è anche una terza ipotesi: se il lavoratore non fa alcuna scelta esplicita il suo Tfr confluisce automaticamente a una forma collettiva di previdenza complementare prevista dal suo contratto di lavoro o, se non prevista, finisce al FondoInps, la forma pensionistica complementare appositamente istituita presso l'Inps.

Di quali flussi parliamo? Si può stimare utilizzando dati Istat e Inps che ogni anno, su un totale di Tfr maturando di circa 22/23 miliardi, 5,5 miliardi vanno ai fondi pensione, circa 11 restano in azienda e 6 miliardi confluiscono al fondo di tesoreria gestito dall'Inps. Dal 2007 a oggi questo fondo di tesoreria dovrebbe aver cumulato circa 35 miliardi. Al FondoInps arrivano invece solo pochi milioni residui l'anno.

Come si diceva la previdenza complementare non ha avuto finora un grande successo nel nostro Paese. Nonostante la granitica certezza che le future pensioni contributive saranno molto più povere dei vecchi assegni calcolati con il sistema retributivo (soprattutto per i giovani e le donne con carriere lavorative assai discontinue) meno del 30% dei lavoratori oggi ha un forma di previdenza complementare. Secondo gli ultimi dati Covip rilanciati dall'ultimo bollettino statistico Mefop a fine 2013 poco più di 6,2 milioni di lavoratori ha aderito a una forma di previdenza complementare, il 27,7% del totale. La frequenza è un po' più altra tra i dipendenti del settore privato (4.355.970 pari al 32,2% del totale) rispetto agli autonomi (1.687.530, pari al 30,4%). Incredibile il dato dei dipendenti pubblici: su 3,3 milioni di occupati solo 160mila (il 4,8%) ha aderito a una qualche forma di previdenza complementare. Dietro questa "non scelta" ha senz'altro pesato la mancanza di un programma nazionale di informazione previdenziale; un piano di cui molte volte s'è parlato ma che non è mai decollato.

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