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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2014 alle ore 07:42.
L'ultima modifica è del 30 settembre 2014 alle ore 11:41.

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«Qual è il Paese che ha visto una crescita inferiore rispetto alla media tra i Paesi della zona euro a partire dal cambio di millennio, dove la produttività è aumentata solo leggermente e dove due dipendenti su tre guadagnano meno oggi rispetto al 2000?».

A questo domanda c’è chi risponde «Portogallo», chi «Italia» e chi «Francia». La risposta in realtà, un po’ a sorpresa rispetto all’immaginario collettivo per cui si tende a considerarla come un modello in tutto e per tutto, è: la Germania. Parola di Marcel Fratzscher, alla guida da oltre un anno dell’Istituto tedesco per la ricerca economica (Diw) e autore de «L’illusione tedesca», che verrà presentato nei prossimi giorni dal ministro dell'Economia Sigmar Gabriel.

La tesi - come riportato da Der Spiegel - è che dietro una facciata scintillante l’economia tedesca si stia addirittura sgretolando. Con infrastrutture che diventano via via obsolete e imprese che preferiscono investire all’estero. Condizioni che per Fratzscher indicano che le fondamenta stesse della prosperità stiano vacillando.

L’inflazione a settembre è rimasta allo 0,8%, troppo bassa per confidare in un percorso di aggiustamento dei conti con gli altri Paesi dell’Eurozona ,dopo 15 anni di forti squilibri macroeconomici.

Secondo l’economista l'industria tedesca vende automobili di alta qualità e tecnologia in tutto il mondo, ma quando l'intonaco di una scuola elementare comincia a sgretolarsi, i genitori sono costretti a mettere i soldi per assumere un pittore. Aziende e famiglie sono sedute su migliaia di miliardi in beni, ma la metà di tutti i ponti autostradali hanno urgente bisogno di riparazioni. Il paradosso è che la Germania è il Paese che più di tutti trae benefici dall'Europa, eppure i suoi cittadini si sentono sfruttati da Bruxelles, indica Der Spiegel.

Sotto attacco è la scarsa attenzione al futuro, il fatto che il Paese non investe. E i dati positivi del mercato del lavoro, che però ha visto il boom dei mini-jobs, nascondono la maggior fragilità della Germania: mentre nei primi anni ’90 governo ed aziende investivano il 25% della produzione economica totale in nuove strade, linee telefoniche, edifici universitari e fabbriche, la percentuale è scesa al 19,7 % nel 2013, secondo recenti dati dell'Ufficio federale di statistica.

Secondo i calcoli dell’istituto Diw, il deficit di investimenti tra il 1999 e il 2012 è stato pari a circa il 3% del prodotto interno lordo, il più grande “gap di investimenti” di qualsiasi Paese europeo. Se si guardano gli anni 2010-2012, il divario, al 3,7 per cento, è ancora più grande. Solo per mantenere lo status quo e conseguire una crescita ragionevole, governo e imprese avrebbero dovuto spendere 133 miliardi dollari in più ogni anno di quanto non facciano oggi.

È questa l’altra faccia della Germania, accusata di aver effettuato dumping salariale a dispetto dei partner ma allo stesso tempo competitor dell’Eurozona, a cui ha sottratto quote di mercato. Una strategia votata all’export, a discapito della domanda interna. E che adesso, con un surplus spropositato (peraltro violando le norme europee sugli squilibri macroeconomici in base alle quale non è possibile generare un surplus delle partite correnti superiore al 6% del Pil nella media a tre anni), superiore persino a quello della Cin,a ora fatica a crescere (nel secondo trimestre è in stagnazione) e rischia di soffrire la cronica mancanza di investimenti a cui il modello economico fortemente sostenuto dalla cancelliera Merkel la sta portando.

E sì, perché, come spiegano gli economisti, seguendo la banale legge macroeconomica S - I = X - M (dove S-I rappresenta la differenza tra risparmio e investimenti di un sistema Paese e dove X-M rappresenta la differenza esportazioni e importazioni) è evidente che un Paese che ha una grande X (cioè che basa la crescita economica principalmente sulle esportazioni) non può aumentare la I (ovvero gli investimenti).

Ormai è chiaro che dalla Germania dipende il futuro stesso dell’Europa: se deciderà di aumentare gli investimenti nell’economia domestica e i salari reali - come più volte auspicato anche da Fondo monetario internazionale e Stati Uniti - si potrebbe avviare un percorso di riduzione degli squilibri. Altrimenti, Berlino rischia di diventare il freno, più che la locomotiva d’Europa.

twitter.com/vitolops

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