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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2014 alle ore 10:16.
L'ultima modifica è del 30 settembre 2014 alle ore 10:47.

«L'economia italiana continua ad essere attraversata da una grave crisi, la più pesante dal dopoguerra sia per intensità che per durata. Iniziata nel 2007, la crisi si è protratta per sette anni, alternando fasi differenti, ma comunque mantenendo il prodotto lungo un percorso tendenzialmente cedente». In totale, la nostra economia ha perso nel periodo circa 1 milione di posti di lavoro. Una debacle da cui sarà difficile riprendersi, sottolinea il rapporto Cnel sul mercato del lavoro 2013-2014: nella migliore delle ipotesi, il nostro mercato del lavoro «potrebbe iniziare a beneficiare di un contesto congiunturale meno sfavorevole non prima dell'inizio del 2015».

Treu: cuneo fiscale lavoro tra i più alti dell’area Ocse
Nel presentare lo studio, il consigliere Cnel Tiziano Treu ha puntato il dito contro la “zavorra” per la nostra produttività costituita dal cuneo fiscale sul costo del lavoro. «I dati mostrano come nei confronti comparati l'handicap maggiore del nostro paese non riguardi il livello assoluto del costo del lavoro, ma il peso del cuneo fiscale e contributivo che è tra i più alti dell'area Ocse». L'ex senatore ha ricordato che da tempo le parti sociali sollecitano «la riduzione del cuneo» che «per essere efficace deve avere una durata certa nel tempo e una consistenza tale da renderla incisiva».

Scenario negativo per l’Europa a 27, Germania in controtendenza
Secondo il rapporto del Cnel sul mercato del lavoro secondo trimestre 2008 l'Italia contava 23,5 milioni di occupati, mentre nel secondo trimestre 2014 questi sono scesi a 22,4 (-4,8%). Nell'Unione europea gli occupati sono passati nello stesso periodo da 219 milioni a 214 (-2,3%). In controtendenza la Germania, che ha registrato un aumento di 2,4 milioni di occupati. I disoccupati europei sono aumentati di 9,4 milioni, passando da 16,6 milioni a 26. In Italia i disoccupati sono quasi raddoppiati passando da 1,7 a 3,1 milioni, crescendo di 1,4 milioni. Peggio di noi hanno fatto la Grecia e Spagna che hanno perso rispettivamente 1 milione e 3,2 milioni di occupati.

A Sud caduta del Pil doppia rispetto al Nord
Il problema della disoccupazione, spiega lo studio del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, non incide allo stesso modo in tutti settori dell’economia nazionale: esistono infatti «ampie divergenze a livello settoriale, con perdite di prodotto e occupazione concentrate nel manifatturiero e nelle costruzioni. Del milione di posti di lavoro persi durante la crisi, più di 400mila sono nell'edilizia, e poco meno nell'industria in senso stretto. Anche a livello territoriale l'intensità della crisi è stata molto diversa. La caduta del Pil al Sud è quasi il doppio di quella delle regioni del centro-Nord. La contrazione in termini di input di lavoro è di quasi 600mila occupati nelle regioni meridionali, e poco più di 400mila nel resto d'Italia».

Potere d’acquisto dei salari indietro ai livelli del 2000
Brutte notizie anche per quanto riguarda il potere d'acquisto dei salari, che secondo il Cnel «ha registrato un andamento abbastanza peculiare, con un significativo incremento nelle prime fasi della crisi e una caduta altrettanto marcata negli anni successivi, che ne ha riportato il valore sul livello della metà degli anni duemila». Si è quindi tornati indietro di quasi un decennio: considerando l'intera “massa salariale” il Cnel stima una perdita complessiva del 6,7% tra il 2009 e il 2013. Due i fattori che hanno portato all’arretramento: l'andamento “cedente” dei salari reali sommato a un'occupazione in caduta.

Deflazione deleteria per conti pubblici italiani
I prezzi in caduta libera non migliorano le prospettive della nostra economia. «Nel caso italiano - rileva lo studio Cnel - l'effetto di un'inflazione a lungo molto bassa sui conti pubblici potrebbe rivelarsi dirompente». La deflazione infatti «può aggravare la crisi nei paesi più indebitati perché i tassi d'interesse europei sono oramai prossimi a zero e, quindi, ad un'inflazione che si riduce corrisponderebbe un livello dei tassi d'interesse in aumento in termini reali».

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