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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2014 alle ore 13:20.

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È difficile, anzi impossibile, non sostenere la lotta e le richieste dei giovani di Central e delle decine di migliaia di hongkonghesi che sono scesi in molte delle strade e delle piazze della ex colonia britannica. Come dimostra il disastro mediorientale, la democrazia è un bene per Paesi socialmente ed economicamente avanzati. I sette milioni di abitanti di Hong Kong lo sono ed hanno dunque il diritto di averla perché saprebbero come amministrarla.

Forse non ancora il miliardo e 300 milioni di cinesi del continente. Il partito comunista giustifica la sua chiusura politica sostenendo che un cambiamento provocherebbe il disordine nel mezzo della vera lunga marcia di questo popolo: la trasformazione e la modernizzazione della società cinese. La storia degli ultimi 200 anni dà qualche ragione al Politburo. I dati sociali ed economici in crescita, no: o quanto meno testimoniano che è solo una questione di tempo perché la democrazia diventi una richiesta da realizzare come il mercato, le riforme bancarie e del sistema scolastico.

In fondo la forza della Cina è questa. Dopo il massacro di piazza Tienanmen il Paese non si è chiuso in una impenetrabile cortina di repressione: è entrato nell'Organizzazione mondiale per il commercio; mantenendo una certa rigidità nazionale ha però aperto il suo mercato; continua a inquinare ma sta sviluppando un grande business nelle energie alternative; i suoi giovani vanno e ritornano da Harvard; è sempre più parte del sistema internazionale.

La polizia di New York è stata di gran lunga più brutale con i giovani di Occupy Wall Street di quanto i loro colleghi di Hong Kong lo siano stati con quelli di Occupy Central. Almeno per ora. Ed è ridicolo pensare che l'Esercito popolare di Pechino stia per organizzare un'operazione militare come a Tienanmen. È probabile che se domani ci fosse un referendum popolare in tutta l'ex colonia sulle rivendicazioni dei giovani di Central, la maggioranza voterebbe ancora contro. Ma meno delle volte passate in cui la gente di Hong Kong è stata chiamata ad esprimere il suo giudizio sulla democrazia, da quando nel 1997 passarono dallo stato di sudditi del Regno Unito a quello di cinesi sotto esame. E sempre di più nelle prossime elezioni chiederanno crescenti diritti di rappresentatività. Perché la democrazia laggiù è solo questione di tempo: prima Hong Kong e poi nel resto della Cina.

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