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Questo articolo è stato pubblicato il 14 ottobre 2014 alle ore 12:47.
L'ultima modifica è del 14 ottobre 2014 alle ore 12:56.
L'allargamento della libertà degli scambi ha accompagnato, nel dopoguerra, la più straordinaria stagione di sviluppo nella storia dell'umanità. Se dovessimo rappresentare, nella tela dei secoli, l'andamento dell'attività economica nel mondo, vedremmo una linea piatta per millenni, che comincia ad alzarsi nel XVIII secolo con la rivoluzione industriale, che sale esitante, con alterne vicende, fino alla metà del XX, e che si impenna poi esponenzialmente nel dopoguerra.
Si ha globalizzazione quando, oltre all'abolizione delle barriere al commercio internazionale, si ha anche una moltiplicazione degli attori e dei concorrenti. La dicotomia fra nazioni industriali, fondate sulla trasformazione, e Paesi arretrati, che esportano materie prime e importano manufatti, non è vera globalizzazione, ma semplicemente un piano inclinato del commercio internazionale che procede lungo la via obbligata delle convenienze: materie prime contro manufatti.
Si ha globalizzazione, invece, quando aumenta la concorrenza fra prodotti simili in diverse nazioni: la "bacchetta magica" degli scambi aiuta i Paesi emergenti ad affrancarsi dal primo stadio di sviluppo economico - quello fondato sullo sfruttamento di materie prime o sui bassi costi del lavoro - e a diventare concorrenti di rispetto lungo l'intera gamma dei beni e dei servizi.
Ma il "globale" vero abbisogna di un altro passo, un'altra parola lunga: la "delocalizzazione", quando la concorrenza si sposta dai prodotti agli insediamenti. Cosa vuol dire? Vuol dire che il produttore, mettiamo, di scarponi da sci di Montebelluna non si deve solo preoccupare della concorrenza di scarponi da sci fabbricati in Romania, ma può tranquillamente contemplare la possibilità di spostare la propria produzione in Romania.
Globalizzazione, allora, vuol dire che i Paesi si fanno concorrenza sugli insediamenti, non solo su camicie, auto o biciclette. Cercando di offrire, oltre ai vantaggi tradizionali (come quelli dei salari più bassi) anche quelli di una manodopera più istruita, di relazioni industriali cooperative, di un Fisco non solo più leggero ma più ragionevole negli adempimenti; insomma, di un "sistema-Paese" (espressione che è stata coniata proprio in seguito alla globalizzazione) più attraente.
Ma la globalizzazione è vera e reale anche quando è solo potenziale. Questo è un punto molto importante, perché diventa fonte di tensioni sociali e politiche. Anche se una fabbica rimane in Italia, quell'impresa è "globalizzata". Perché? Perché potenzialmente quell'impresa potrebbe delocalizzare. Cioè a dire, gli assetti economici, tecnologici, sociali del mondo rendono possibile la delocalizzazione: questa non è relegata nel mondo dei sogni ma diventa una delle opzioni, aperte e presenti, dell'impresa stessa.
La tecnologia è un asse portante della globalizzazione. La possibilità di trasmettere informazioni ovunque e in tempo reale sta cambiando il modo di operare dell'economia. Con Internet, per esempio, un'azienda che abbisogni, mettiamo, di guarnizioni, può senza alcuna spesa bandire un'asta telematica, chiedendo ad aziende di tutto il mondo di sottoporre offerte e specifiche. Via Internet si possono comperare libri, cd e molto altro, tagliando sui costi di distribuzione. Ma la punta di diamante della rivoluzione tecnologica è il "matrimonio" fra comunicazioni e informatica. La telematica permette, per esempio, a un'impresa di lavorare in strettissimo contatto con i propri fornitori anche a un continente di distanza: scambiandosi disegni o progetti, risultati di test, parlandosi "faccia a faccia" in videoconferenza.
La globalizzazione è allora una benedizione e basta? No, ci sono dei 'contro' assieme ai 'pro'. Ed è quello di cui parleremo domenica prossima.
fabrizio@bigpond.net.au
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