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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2014 alle ore 06:37.

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A Hong Kong è conosciuto con le sue iniziali, C.Y. e non è mai stato un leader popolare, sin dal suo insediamento nel 2012. Ora però i manifestanti ne chiedono a gran voce le dimissioni. Lui è Leung Chun-ying, 60 anni, chief executive dell'ex colonia britannica, diventato una sorta di simbolo della longa manus cinese.
Figlio di un poliziotto proveniente dalla provincia orientale cinese di Shandong, ha sempre rivendicato con orgoglio di essere nato e cresciuto a Hong Kong. Qui, dopo aver studiato in Gran Bretagna ingegneria gestionale applicata al settore immobiliare, si è affermato proprio nel campo del real estate, prima di essere nominato - ad appena 34 anni - segretario generale del comitato incaricato di redigere la bozza della nuova Costituzione di Hong Kong, in vista del ritorno alla Cina nel 1997.
«Se lavoreremo insieme, sono sicuro che Hong Kong, la perla d'Oriente, brillerà di nuovo», aveva dichiarato durante il discorso di insediamento da capo del governo nel 2012. «Ogni cittadino deve poter godere dei vantaggi dello sviluppo di Hong Kong. Farò del mio meglio per proteggere le libertà civili di tutti gli abitanti, la libertà di stampa e l'imparzialità dei media».
All'atto pratico però - obiettano i suoi sempre più numerosi detrattori - Leung ha fatto esattamente il contrario: sul piano economico, favorendo un'élite di magnati, l'afflusso di ricchissimi cinesi e l'aumento delle diseguaglianze sociali (i suoi sostenitori dicono invece che ha saputo valorizzare la vocazione pro business di Hong Kong); sul piano politico - ed è la critica più grave - consentendo una crescente ingerenza di Pechino negli affari della città.
Proprio il rifiuto di Pechino di dar pieno corso alle promesse democratiche di suffragio universale con scelte veramente libere a partire dal 2017 è stata la scintilla che ha innescato la protesta.
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