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Questo articolo è stato pubblicato il 03 ottobre 2014 alle ore 06:38.

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Con una mano la minaccia, con l'altra un gesto distensivo. Al termine di una nuova giornata di tensioni, in una conferenza stampa indetta alle 23.30 (le 17.30 in Italia), il capo del governo di Hong Kong, Chun-ying Leung, ha chiarito che non si dimetterà e ha avvisato i manifestanti che subiranno «gravi conseguenze» se decideranno di occupare edifici governativi, come avevano annunciato in mancanza di risposta alle richieste di riforme e democrazia.
«In qualsiasi parte del mondo - ha avvisato Leung - se ci sono proteste che circondano, attaccano o occupano edifici del governo, le conseguenze sono gravi». Al tempo stesso, però, CY, come Chun-ying Leung viene comunemente chiamato a Hong Kong, si è detto pronto al dialogo e ha incaricato il suo numero due, Carrie Lam, a organizzare un incontro con la Federazione degli studenti, uno dei principali motori della contestazione, insieme a Occupy Central e Scholarism. CY ha addirittura avuto parole di elogio per gli studenti, li ha definiti «razionali» e ha sostenuto di essere «sempre stato favorevole» al dialogo.
La conferenza stampa si è conclusa qualche minuto prima della scadenza dell'ultimatum lanciato dai leader della protesta, che chiedevano risposte entro la mezzanotte. Qualche ora dopo, Occupy Central, la Federazione degli studenti e i leder della protesta hanno raccolto l'invito al dialogo, ma con dei "distinguo". Un comunicato annuncia che avranno un incontro pubblico con la chief secretary Carrie Lam, specificando, però che insistono per le dimissioni del capo del governo Leung Chun-ying, «che sarà solo una questione di tempo». La Federazione studentesca di Hong Kong, che rappresenta la maggioranza dei manifestanti contro il governo, infatti, sottolinea che il premier «ha già perso la sua integrità e tradito la fiducia che le persone riponevano in lui», perché «non solo ha rifiutato una vera riforma politica, ma ha ordinato un repressione violenta contro i manifestanti pacifici».
La giornata è trascorsa con le forze dell'ordine faccia a faccia con i manifestanti, divisi solo dalle transenne e a poche decine di metri dagli ingressi dell'ufficio del capo dell'esecutivo locale. La protesta è stata innescata dalla decisione della Cina di scegliere chi potrà candidarsi alle elezioni che si terranno a Hong Kong nel 2017.
Un ruolo silenzioso ma importante viene giocato anche dalle chiese cristiane. Mentre le alte gerarchie restano cautamente neutrali, i fedeli offrono panini, acqua e riparo agli studenti, molti dei quali sono usciti proprio dalle loro scuole, protestanti e cattoliche. E i loro esponenti compaiono tra gli ispiratori e i leader della protesta. Uno dei fondatori di Occupy central è un sacerdote battista e tra i più attivi sostenitori della contestazione c'è una voce tanto nota quanto scomoda a Pechino, quella dell'ex vescovo cattolico della città, il cardinale Joseph Zen Ze-kiun.
Le chiese sono radicate tessuto sociale di Hong Kong, e dietro lo scontro in atto, alcuni ne vedono uno più profondo. Come spiega Joseph Chan, dell'Università cinese di Hong Kong, «i cristiani, per definizione, non si fidano dei comunisti. I comunisti reprimono i cristiani ovunque siano». Cattolici e protestanti sono quasi il 12% della popolazione della città.
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