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Questo articolo è stato pubblicato il 03 ottobre 2014 alle ore 06:37.

Il tonfo di quasi il 4% accusato ieri da Piazza Affari non può che spaventare il piccolo risparmiatore, per lasciarlo con un interrogativo pressante: è davvero finita la «luna di miele» fra le Banche centrali e i mercati nel cui segno si è svolto l'impressionante rally di azioni e titoli di Stato? Diversi segnali di una certa disaffezione, va detto, sono evidenti: non certo da ieri, e non soltanto in Europa. C'è il dubbio che la reazione favorevole al discorso pronunciato da Mario Draghi a Jackson Hole in agosto e agli interventi di un mese fa a Francoforte sia stata forse eccessiva. E risuona anche più di un campanello d'allarme a Wall Street, dove l'indice S&P 500 mostra da qualche tempo segnali di affaticamento dopo aver più volte fallito l'attacco alla soglia psicologica dei 2.000 punti.
Ma l'esperienza del gestore insegna anche a diffidare da movimenti improvvisi, e possibilmente a evitare di mettere mano al portafoglio in modo affrettato. «Quella avuta ieri dal mercato – sottolinea Michele De Michelis, responsabile investimenti di Frame Am – assomiglia molto alla reazione isterica di un drogato nel momento in cui gli viene negata la dose che si aspetta. Il dottore, che in questo caso è la Bce, non ha però sospeso del tutto le cure: ha semplicemente fatto capire che le somministrerà a tempo dovuto». A parti inverse, sostiene il gestore, la situazione ricorda molto da vicino quanto avvenne nelle primavera dello scorso anno quando l'allora presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, accennò per la prima volta al «tapering»: gli investitori si spaventarono, salvo poi correggere il tiro nei mesi successivi, tanto che quella poi si è rivelata a conti fatti una magnifica occasione d'acquisto.
Oggi ovviamente lo scenario presenta tinte differenti, quantomeno perché bond e azioni sono vicini a massimi storici o di lungo periodo, ma questo non impedisce a De Michelis di riproporre un consiglio valido in gran parte delle occasioni: «Accumulare azioni sui ribassi dei listini, come quello di ieri, per alleggerire poi sui successivi rialzi, ma senza certo stravolgere il portafoglio». La preferenza per l'equity, in questo caso, è anche dettata dalla sostanziale mancanza di alternative nei bond e soprattutto nel cash, dove i rendimenti sono davvero irrisori.
Resta l'incognita su come diversificare l'esposizione sui vari settori o mercati e qui ogni gestore ha la sua piccola ricetta: quella di De Michelis, per esempio è di sovrappesare il Giappone (che potrà sfruttare la politica monetaria ultraespansiva, questa sì, della Banca centrale) e i titoli del settore aurifero (sottovalutati anche se si tiene conto dei prezzi dell'oro). Molti altri suggeriscono di cercare le società e i comporti europei che più si possono avvantaggiare dal rafforzamento del dollaro nei confronti dell'euro. Ieri infatti la valuta comune ha rialzato la testa alle parole di Draghi, ma c'è chi (come Barclays, per esempio) la vede anche scivolare a quota 1,10 da qui a 12 mesi per le politiche divergenti di Fed e Bce. Nella graduatoria stilata da Goldman Sachs, a ricevere in Europa i maggiori benefici in termini di vendite da un deprezzamento dell'euro sono i titoli del settore energetico (che però, da parte loro, soffrono del concomitante calo dei prezzi delle materie prime), seguiti da media e beni personali, mentre fra le azioni italiane da inserire in un ipotetico portafoglio che beneficia dell'euro debole figurano Pirelli, Fiat, Eni e Luxottica. Per chi non vuole spostare l'intero portafoglio Oltreoceano (assumendosi tutti i rischi di un'esposizione valutaria) potrebbe trattarsi di una buona soluzione di compromesso.
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L'impatto del calo dell'euro

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