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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 10 ottobre 2014 alle ore 07:34.

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I turchi vogliono mettere gli stivali sul terreno in Siria con la garanzia di potere fare ciò che vogliono non quello che dicono gli americani e la coalizione. Il Califfato è un problema minore agli occhi di Ankara. «La Turchia non deve essere vista come un invasore dagli arabi - scrive Ibrahim Karagul direttore di Yeni Safak, quotidiano vicino all'Akp - e neppure presentarsi come chi vuole dissolvere i movimenti islamici, da Hamas alla Fratellanza Musulmana, dagli islamisti della Libia ai talebani». Questa è l'aria che tira tra i pensatori islamisti.

A questo punto la Turchia sarebbe in grado di ricostruire il Free Syrian Army, severamente sconfitto dai gruppi jihadisti, per muovere contro il regime di Damasco con una formazione, assai nebulosa, già accreditata con sin troppa generosità dai governi europei. In questa fase Ankara ha due nemici: Assad e i curdi. L'Isis ricade nel vecchio detto mediorientale: il nemico del mio nemico è mio amico.

L'altro obiettivo è indebolire i curdi siriani del Pyd, l'Unione democratica, alleati del Pkk di Abdullah Ocalan, per creare nel Nord della Siria una zona cuscinetto controllata dai militari turchi. Nella "buffer zone" siriana verrebbero rispediti migliaia di profughi oltre confine (la Turchia ne ospita un milione e mezzo) che sono per la maggior parte arabi, diminuendo quindi in percentuale la presenza dei curdi alla frontiera.

Qui gli spostamenti di popolazione oltre che drammi umanitari sono terremoti politici. Erdogan ha riconosciuto sia la leadership di Massud Barzani che la sovranità del Kurdistan iracheno, con cui intrattiene proficui scambi commerciali e acquista petrolio senza il permesso del governo di Baghdad. Lo stesso riconoscimento non è avvenuto per il Pyd né per la regione di Rojava, così è chiamato il Kurdistan siriano, e per due ragioni: per il patto di non belligeranza dei curdi con Assad e per la sua affiliazione con il Pkk.

La strategia di Ankara a Kobane è questa: attendere che i curdi siano così stremati da far apparire ineluttabile l'"aiuto" militare turco e fargli accettare le pressioni per entrare nella coalizione anti-Assad. Tutto questo non piace ai curdi. Il Pkk di Abdullah Ocalan, recluso a Imrali, ha già fatto sapere di essere pronto a disotterrare l'ascia di guerra. A Istanbul Istiklal Caddesi è invasa, nelle periferie si moltiplicano gli scontri con le molotov mentre nel Sud-Est del Paese, in ebollizione per le proteste, è stato proclamato il coprifuoco al confine con la Siria. La prima vittima è stata un giovane di 25 anni, Hakan Bakusr, fulminato dalla polizia nel distretto di Van. A fine giornata il bilancio era di almeno 12 morti negli scontri in tutta la Turchia.

Kobane dunque cade stritolata dallo Stato Islamico ma anche da una coalizione internazionale dove gli interessi sono quasi opposti. È una situazione sostenibile a lungo? La bandiera nera del Califfato che sventola a Kobane, e ora anche in Libia, è l'ultimo avviso all'Occidente.

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