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Questo articolo è stato pubblicato il 08 ottobre 2014 alle ore 06:36.
L'ultima modifica è del 08 ottobre 2014 alle ore 06:55.

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ROMA
Niente è scontato ma gli indizi delle ultime ore sono univoci: oggi pomeriggio il Jobs act otterrà la fiducia del Senato con i soli voti della maggioranza e nelle stesse ore in cui a Milano Matteo Renzi, assieme François Hollande e Angela Merkel, terrà la conferenza stampa al termine del vertice europeo sul lavoro. Un risultato garantito dalle divisioni all'interno della minoranza Pd con i civatiani (a loro volta divisi) rimasti spiazzati dopo che Pier Luigi Bersani ha dato indicazione di votare la fiducia.
Il governo quindi otterrà il sì di Palazzo Madama anche se non è ancora scontata la maggioranza assoluta dei componenti, vista l'assenza annunciata di alcuni senatori vicini a Pippo Civati e dei centristi Mario Mauro e Tito Di Maggio che minacciano di non votare a favore. Se anche non si raggiungeranno però i 161 voti, nessuno mette in discussione il via libera, anche perché non sono da escludere defezioni strategiche tra i forzisti.
A mettere fine alle ipotesi di possibili spallate sono state ieri le parole di Pier Luigi Bersani. All'ex segretario sono legati infatti almeno una trentina di senatori che avevano sottoscritto gli emendamenti per non toccare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. «A chi mi chiede consiglio raccomando responsabilità e lealtà anche davanti a una forzatura come questo voto di fiducia. La fiducia non può essere in discussione», ha confermato Bersani che non ha rinunciato a inviare una frecciata al premier: «La sera della direzione avremmo potuto tutti, maggioranza e minoranza, andare al cinema». Chiaro il riferimento alla scelta di mantenere invariato il testo della delega sull'articolo 18 senza quindi l'eccezione sul reintegro per i licenziamenti disciplinari, che il segretario-premier aveva garantito nella riunione al Nazareno.
Il dissenso in casa Pd però resta. Lo dimostrano le numerose assenze ieri tra i democratici, ma anche tra i centristi, che hanno determinato la mancanza del numero legale facendo slittare il voto a oggi. A chiedere la verifica sono stati i Cinque stelle e a quel punto Fi non ha partecipato al voto. «La maggioranza deve essere in grado di garantire autonomamente il numero legale, noi partecipiamo solo sui provvedimenti che condividiamo, come è avvenuto sulla riforma costituzionale, mentre sul Jobs act votiamo contro», ha spiegato la forzista Anna Maria Bernini.
Ma il malessere in casa democratica resta circoscritto e in ogni caso nessuno sembra disposto ad assumersi la responsabilità dell'eventuale fine del governo Renzi e della scissione del Pd. Al punto che anche Civati, che sabato era sul palco assieme a Nichi Vendola per dire «no» alla cancellazione dell'articolo 18 e prepararsi a dar vita a una nuova formazione di sinistra, ieri è stato costretto a fare marcia indietro annunciando, dai microfoni di Radio 24, non il voto contrario bensì la «probabile assenza di alcuni senatori». Il risultato è che si abbassa il quorum e quindi anche gli assenti contribuiranno al via libera sul lavoro. Senza contare che anche i civatiani (cinque in tutto) hanno una posizione non unitaria. Sergio Lo Giudice ha infatti già annunciato che voterà la fiducia, sia pure turandosi il naso («quando deciderò di votare no, sarà il momento in cui abbandonerò il Pd»). Restano ancora in dubbio Walter Tocci e Lucrezia Ricchiuti, particolarmente critici verso Renzi nei loro interventi in aula, mentre non si è pronunciato Felice Casson. Al momento l'unico «no» potrebbe essere quello dell'ex giornalista Rai e oggi senatore Pd Corradino Mineo.
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