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Questo articolo è stato pubblicato il 09 ottobre 2014 alle ore 10:53.

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Il 28 ottobre prossimo, come noto, il Presidente della Repubblica sarà ascoltato dalla Corte d'Assise di Palermo in veste di testimone su una presunta trattativa che sarebbe stata intavolata con i capi di Cosa Nostra da rappresentanti delle istituzioni per evitare, dopo l'attentato contro il giudice Falcone del 1992, ulteriori attacchi violenti contro le istituzioni e i suoi rappresentanti.

Si tratta pressoché di un unicum nella nostra storia costituzionale. E di una testimonianza che sarà acquisita innanzitutto – è bene sottolinearlo, con tutta chiarezza – grazie alla disponibilità del Presidente della Repubblica Napolitano, pronto a “sorvolare” sulle riserve espresse negli ultimi decenni, tanto dai Presidenti Cossiga e Scalfaro, quanto da molti giuristi, sulla costituzionalità dell'art. 205, c. 1, c.p.p., relativo, appunto, all'assunzione della testimonianza del Presidente della Repubblica.

Una volontà di testimoniare confermata non soltanto in una lettera molto circostanziata inviata alla Corte d'Assise di Palermo un anno fa (il 31 ottobre 2013), nella quale il Presidente sottolineava di non avere nulla da riferire sui temi del processo, ma anche successivamente confermata quando il Presidente, dopo l'ordinanza della Corte d'Assise di Palermo del 25 settembre 2014, ha dichiarato di accettare, appunto, «senza alcuna difficoltà» di «rendere al più presto testimonianza», superando i rilievi contrari mossi pure dai legali di alcuni imputati.

Se la vicenda si fosse fermata qui, al di là dell'eccezionalità del gesto del Presidente, saremmo stati di fronte ad un classico caso di scuola, dal Presidente volutamente prodotto in risposta alle azioni e alle scelte della Procura e della Corte d'Assise di Palermo. La questione si sarebbe presto conclusa e non resterebbe altro che far studiare il precedente nei nostri corsi universitari.

Invece, essa si sta ulteriormente avviluppando, in modi e toni che sanno del feuilleton da cabaret se non si trattasse delle massime istituzioni della Repubblica, in ragione della subitanea richiesta di alcuni boss mafiosi imputati nel processo – da Totò Riina a Leoluca Bagarella – di assistere all'assunzione della testimonianza nella sala del Quirinale – se non di persona, almeno attraverso il metodo della videoconferenza – lamentando il fatto che altrimenti sarebbero lesi i loro diritti processuali.

Siamo – come è evidente – al ribaltamento della realtà, approfittando biecamente della disponibilità politico-istituzionale altrui, oltre che degli strumenti di garanzia offerti dal nostro codice di procedura penale.

Eppure, lo smaccato tentativo dei boss di accostare, nella sede che rappresenta unitariamente la Repubblica, lo Stato e l'anti-Stato, è sostenuto dal parere favorevole, offerto peraltro in modo del tutto spontaneo, della Procura della Repubblica di Palermo, titolare delle indagini.

Se non fosse quel che si ha di fronte agli occhi, certamente potrebbe essere la trama di uno sceneggiatore creativo.
E allora, in questa vicenda e in questo disegno i cui contorni rischiano di farsi sempre più volutamente confusi e grigi, è il caso di rimarcare come alle esigenze di accertamento dei fatti oggetto dell'azione penale, di tutela del diritto di difesa, di rispetto del giusto processo, che trovano sempre validissimi paladini, non si sia ancora contrapposta con tutta la forza necessaria, invece, l'esigenza primaria di tutelare la dignità delle istituzioni.

Non soltanto perché, come ebbe a chiarire allora il Presidente della Repubblica, l'accettazione del conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo non era stato fatto per difendere se stesso ma, appunto, per lasciare intatta l'istituzione nelle sue prerogative ai suoi successori, ma anche perché se quella disponibilità viene intesa come il modo per delegittimare, in una diretta televisiva internazionale, la Presidenza della Repubblica, occorre riaffermare che ogni abuso contro il Capo dello Stato – chiunque esso sia – colpisce l'istituzione che rappresenta prima che la persona, confermando giustamente le ragioni che, dalla nascita del costituzionalismo in poi, preservano i rappresentanti delle istituzioni durante l'esercizio delle funzioni.

D'altronde, a nessuno è consentito abusare dello “Stato di diritto” in nome dello Stato di diritto.

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