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Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2014 alle ore 06:38.

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Su Erdogan c'è un equivoco: è considerato un alleato dell'Occidente perché la Turchia fa parte della Nato e per oltre mezzo secolo ha costituito un bastione a contatto con l'ex Urss. Ma dopo il crollo del Muro e la fine dell'Impero Rosso molto è cambiato: da tempo la politica estera di Ankara ha altre priorità (l'Iraq, per esempio, è il secondo partner commerciale dopo l'Europa) e i militari hanno dovuto cedere il passo a un partito musulmano conservatore, l'Akp, considerato - altro equivoco - "moderato" ma che vuole imporre la sua visione di società islamica a colpi di maggioranze conquistate con una sfilza di regolari vittorie elettorali.
In realtà Erdogan, come dimostra la sua carriera costruita dentro il movimento dell'Islam politico, è prima di tutto un credente musulmano e un convinto nazionalista, con una strategia: imporre l'influenza della Turchia in Medio Oriente facendo leva sul mondo sunnita. Fare fuori il regime alauita di Bashar Assad per lui è una priorità assoluta rispetto alla lotta contro il Califfato.
Nell'inferno di Kobane, a spese dei curdi, americani e europei hanno scoperto con un certo ritardo che la Turchia non è più al loro fianco e che si inventa ogni scusa pur di non intervenire per salvare i detestati curdi ai quali Ankara non vuole concedere un barlume di autonomia, né da una parte né dall'altra della frontiera. E così chiaro che, dopo il cessate il fuoco con il Pkk, non si è fatto alcun passo avanti nei negoziati con Abdullah Ocalan e la rabbia dei curdi, innescata dall'immobilismo delle forze armate davanti a Kobane, sta incendiando il Paese.
Bisogna però anche essere onesti. La Turchia ha già dato addio da un pezzo al treno europeo perché da Bruxelles non è mai partito un Orient Express diretto oltre il Bosforo. I leader europei per anni hanno spinto i turchi a fare riforme convinti che Ankara non ce l'avrebbe mai fatta. E quando il Paese con il miracolo economico dell'era Erdogan è arrivato quasi al traguardo, Francia e Germania si sono messe di traverso perché non hanno mai avuto intenzione di far sedere la Turchia nel club Ue. E adesso si raccolgono i cocci di una politica europea ipocrita.
Con gli Stati Uniti l'equivoco Erdogan è stato evidente. Si è cominciato a chiarire un anno fa quando l'allora premier aveva addirittura minacciato di espellere l'ambasciatore Frank Ricciardone. Poi c'è stata la crisi finanziaria, coincisa con la tangentopoli turca, ed Erdogan si è scagliato contro un imam, Fetullah Gulen, e il sistema economico occidentale, colpevoli di affossare la Turchia: la definì la lobby dei tassi di interesse. La teoria del complotto piacque molto ai suoi elettori, deliziati anche dal suo decisionismo quando ha censurato i social media e incarcerato i giornalisti.
Ma è sulla Siria che Washington e Ankara sono andate allo scontro con le affermazioni del vicepresidente Joe Biden sul coinvolgimento turco nell'ascesa del jihadismo. Una gaffe non così involontaria come si vuol fare credere. Ora, dopo il segretario generale Nato Jens Stoltenberg, è arrivato ad Ankara l'inviato speciale di Obama, l'ex generale John Allen: avrà di che discutere, soprattutto sulle controverse richieste turche di imporre una "no fly zone" e delle aree "cuscinetto" in Siria.
Erdogan ha persino preso in giro gli americani - che da tempo hanno in mano i rapporti dei servizi - quando ha definito «turisti» i militanti anti-Assad che hanno percorso l'"autostrada della Jihad" al confine turco-siriano negli ultimi tre anni. E si fa beffe anche degli europei, a cui fa credere che il Free Syrian Army sia una formazione filo-occidentale: una cosa sono gli esponenti che sfilano alle riunioni internazionali, un'altra è l'ala islamica sostenuta dalle monarchie del Golfo che pagano armi e stipendi.
Ha un peso preponderante in questo quadro la personalità di Erdogan che un noto giornalista come Cengiz Candar definisce populista come Chavez, autoritario come Putin e scaltro in affari come Berlusconi. Anche i Koc, soci della Fiat, la famiglia più prestigiosa della Turchia, hanno dovuto fare i conti con lui quando si sono schierati con i manifestanti di Gezi Park. È quello che piace al suo elettorato al quale Erdogan chiederà alle elezioni del 2015 una vittoria per trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, non tanto alla De Gaulle quanto alla Putin, da cui importa cifre record di gas.
Come i curdi possiamo avere una pessima opinione di Erdogan, ma qualche ragione a diffidare dell'Occidente ce l'ha: dove hanno portato in Medio Oriente le coalizioni a guida Usa? Dovremmo chiedercelo anche noi, anche se questo non giustifica lasciare crepare i curdi a 800 metri dal confine sotto la mannaia del Califfato. Ma così vanno le cose da queste parti, basta non continuare a ragionare sugli equivoci.
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