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Questo articolo è stato pubblicato il 12 ottobre 2014 alle ore 15:28.
L'ultima modifica è del 30 ottobre 2014 alle ore 08:41.

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Stefan Lofven (Ap)Stefan Lofven (Ap)

Henry Kissinger sosteneva che Israele non ha una politica estera ma solo una politica interna. Qualsiasi cosa accada nel mondo, dall'introduzione dell'euro alle elezioni in Giappone, la domanda che si pongono il governo, i servizi segreti, i giornali e l'opinione pubblica è: è un bene o un male per Israele e, di conseguenza, per gli ebrei? È una questione politica: Israele non ha molti amici oltre le sue frontiere. E un dilemma psicanalitico che ha molto a che fare con la tragica storia del popolo ebraico.

È dunque evidente che Stefan Lofven sia subito entrato nella lista dei «no good for Israel», quando nel suo discorso inaugurale da primo ministro svedese (in carica dal 3 ottobre ndr) ha proposto, fra molte altre cose, il riconoscimento svedese dello Stato palestinese. È contato poco che in precedenza il leader socialdemocratico avesse elogiato il modello d'impresa israeliano che produce più startup dell'intera Europa, sostenuto il diritto d'Israele all'autodifesa nella recente guerra di Gaza e partecipato a Stoccolma a una marcia contro l'antisemitismo. Quasi per meccanismo automatico, Lofven diventava un nemico d'Israele, sospettato di razzismo. (Perché l'assioma prevede non si possa criticare lo Stato ebraico senza essere automaticamente antisemiti).

Così per Ed Miliband, leader del Labour e candidato dell'opposizione alle prossime elezioni britanniche. Come il premier svedese, anche il partito laburista ha proposto una risoluzione sul riconoscimento dello Stato palestinese: dovrebbe essere presentata al voto entro la fine di ottobre, quando il parlamento sarà riconvocato. Ma Miliband è ebreo, figlio di due intellettuali marxisti scampati ai campi di sterminio.

Quando gli è stato chiesto di chiarire la sua identità ebraica in una condizione familiare e culturale laica, il leader del Labour ha risposto così: «I miei genitori si sono formati su una base politica più che ebraica. Si sono assimilati nella vita britannica al di fuori della comunità ebraica. Non c'è stato Bar Mitzvà né gruppi giovanili ebraici. Ma non mi sono perso molti altri aspetti dell'ebraicità: mia madre mi ha fatto conoscere Woody Allen, mio padre mi ha insegnato l'Yiddish e mia nonna mi cucinava zuppa di pollo e matzo».

Può essere definita un'autodenuncia di antisemitismo? Evidentemente no. Ma la proposta del suo partito di votare a favore di uno Stato palestinese prima che i negoziati in Medio Oriente arrivino a una conclusione, ha sollevato questo sospetto in Israele e nella comunità ebraica inglese. Sembra un problema diffuso, un'ebola politica mondiale, se meno di due anni fa l'assemblea generale dell'Onu aveva votato la promozione della Palestina allo status di “Stato osservatore non membro”. La stessa posizione del Vaticano.

La burocrazia non è chiara: significa che per le Nazioni Unite i palestinesi arrivavano a un passo dal riconoscimento di nazione partecipante a tutti gli effetti. A favore votarono 138 Stati, compresa l'Italia e molti altri europei che di solito si astenevano o erano favorevoli alle posizioni israeliane. Contro nove: Usa, Canada, Israele, Repubblica Ceca, Isole Marshall, Micronesia, Naru, Panama e Palau.

L'antisemitismo è come la droga e la prostituzione: un male difficile da estirpare. Ma è ridicolo pensare che Stefan Lofven, Ed Miliband e tutti gli Stati del mondo eccetto nove, siano razzisti. In Europa cresce la popolazione di religione musulmana e il suo peso elettorale si fa più visibile. Ma siamo molto lontani dalla “conquista islamica del potere” nel continente, della quale sono convinti Magdi Cristiano Allam e altri catastrofisti.

Perché allora questa apparente ansia di riconoscere la Palestina? Per una questione di evidente giustizia. È ovvio che il problema dovrà essere risolto alla fine di una trattativa diplomatica. Ma la trattativa non c'è e di questa impasse il governo Netanyahu è di gran lunga più responsabile dei palestinesi dell'Autorità nazionale della Cisgiordania. Lo denunciano anche gli americani, pur così attenti alle ragioni di Israele.

Riconoscere lo Stato di Palestina, idealmente più che nella forma politica e diplomatica, è solo un atto di civile giustizia che non mette in alcun modo in pericolo la sicurezza e l'esistenza di Israele.

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