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Questo articolo è stato pubblicato il 14 ottobre 2014 alle ore 06:38.

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Il Califfato avanza a Kobane e in Iraq mentre ogni giorno che passa la coalizione dei volenterosi guidata dagli Stati Uniti appare sempre di più un club litigioso di alleati recalcitranti, con obiettivi dissimili e interessi molto diversi, se non contrapposti. Il caso della Turchia appare quasi sconcertante perché Ankara è arrivata persino a smentire il consigliere americano della Sicurezza nazionale, Susan Rice, che aveva annunciato il via libera dei turchi alla concessione della base aerea di Incirlik.
La smentita è arrivata dall'ufficio del premier Ahmet Davutoglu, per anni l'ambizioso quanto velleitario architetto della politica estera di Tayyep Erdogan. Fu lui a pronosticare nel 2011 che Assad sarebbe caduto in pochi mesi, se non in settimane. Non è escluso che le cose possano di nuovo mutare nelle prossime ore ma è chiaro che Washington non riesce a coinvolgere la Turchia in un conflitto, lungo le sue frontiere, preparato in fretta e dagli esiti incerti.
Del resto ci sono equivoci clamorosi sul presidente Erdogan, qui considerato da sempre un alleato dell'Occidente. Dopo il crollo del Muro e la fine dell'ex Urss molto è cambiato: la politica estera di Ankara ha altre priorità rispetto a quelle americane ed europee, a volte gli interessi coincidono, in altri casi divergono. Due esempi: la Turchia importa dalla Russia e dall'Iran tutto il gas e il petrolio che vuole perché non applica le sanzioni o se lo fa, come nel caso di Teheran, vengono abilmente aggirate.
Erdogan, come dimostra la sua carriera costruita dentro il movimento dell'Islam politico, è prima di tutto un musulmano e un convinto nazionalista con una strategia: imporre l'influenza della Turchia in Medio Oriente facendo leva sul mondo sunnita. Per questo il suo obiettivo non è abbattere il Califfato, che comunque sta combattendo contro i suoi nemici curdi, ma Bashar Assad. La stessa mozione votata dal Parlamento per dare via libera alle missioni militari oltre confine non menziona neppure lo Stato Islamico ma fa esplicitamente il nome del Pkk, il partito della guerriglia ritenuto il nemico numero uno dei turchi.
Forse pochi se ne erano accorti ma la Turchia continuava a essere un membro della Nato a mezzo servizio: ha voluto e ottenuto lo schieramento dei Patriot dell'Alleanza per contrastatare le minacce del regime siriano ma adesso che si tratta di prendere misure contro lo Stato Islamico appare decisamente svogliata. È vero che ha accettato il training di una forza militare da inviare in Siria di 4mila uomini ma questi saranno selezionati dai servizi turchi: il che significa che prima di tutto faranno gli interessi di Ankara non della coalizione. Che sono diversi da quelli americani.
Stati Uniti e Turchia continuano a negoziare per una zona cuscinetto dentro al territorio siriano: ma questa volta sono gli americani a esitare perché temono che Ankara utilizzi questa aerea per trasferire i profughi (1,5 milioni in Turchia) e comprimere la minoranza curda. La Turchia non intende concedere aspirazioni di autonomia ai curdi né da una parte né dall'altra della frontiera. L'unico Kurdistan che è disposta ad accettare è quello iracheno capeggiato da Massud Barzani dal quale la Turchia importa petrolio ed esporta merci a piene amani. Il Kurdistan con capitale Erbil è ricattabile: i turchi hanno più volte minacciato Barzani di strozzare le sue vie di traffico se si fosse alleato con i curdi siriani o con il Pkk.
E così mentre Stati Uniti e Turchia discutono, il Califfato, nonostante la campagna di bombardamenti, si è impadronito in Iraq di una base militare e dell'aviazione, minacciando Ramadi, capitale della provincia sunnita di Al Anbar, e l'accesso alla diga strategica di Hadita. Il Califfato punta a Baghdad, lo ammette anche il capo di stato maggiore Usa Martin Dempsey secondo il quale i jihadisti tra poco potrebbero tenere sotto tiro la capitale - sconvolta anche dagli attentati contro gli sciiti (45 morti) - con la sua artiglieria e i mortai. Si parla di difendere l'aereoporto di Baghdad con gli Apache mentre l'ipotesi che lo Stato Islamico possa ridisegnare i confini del Medio Oriente appare sempre più concreta. Con l'appoggio della quinta colonna sunnita ma anche con l'assenso tacito di quegli alleati della coalizione che oltre a essere riluttanti sono assai ambigui.
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ALTRE PRIORITÁ

Non solo Kobane
Preoccupato dall'idea di un rafforzamento eccessivo dei curdi nella regione di Kobane, una volta sconfitto l'Isis, il presidente turco è tornato ieri a ripetere che per Ankara la priorità è la cacciata del presidente siriano Bashar Assad. «Combatteremo l'Isis con la stessa determinazione di prima - ha detto Erdogan parlando ieri all'Università di Istanbul - ma a certe condizioni. La costituzione di una no-fly zone, e di una zona cuscinetto (all'interno della Siria)». Secondo Erdogan è necessario prendere di mira il regime siriano: «Non si può solo risolvere la situazione a Kobane».

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