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Questo articolo è stato pubblicato il 17 ottobre 2014 alle ore 06:39.
L'ultima modifica è del 17 ottobre 2014 alle ore 08:09.

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Era il passaggio più delicato, non solo per il destino del processo Ruby e di molti altri, ma anche per le sue implicazioni politiche. La Corte d'appello lo ha affrontato con un equilibrismo, mettendo comunque un punto fermo nella tormentata vicenda sullo "spacchettamento" della concussione, destinata a trascinarsi ancora a lungo prima di approdare alla «certezza del diritto».

Il punto fermo è che il nuovo reato di «induzione indebita», figlio dello spacchettamento introdotto dalla legge Severino, «richiede necessariamente il concorso di due soggetti, il pubblico ufficiale inducente e l'extraneus opportunisticamente complice del primo, pur in un rapporto di forze squilibrato».

Dunque non basta la pressione morale (esercitata anche con la suggestione) da parte del pubblico ufficiale ma occorre che l'indotto agisca per un tornaconto personale: l'«indebito vantaggio» è infatti un «elemento indefettibile per la sussistenza del delitto». Questo, scrive la Corte, è quanto si ricava dalla «sentenza Maldera» delle sezioni unite della Cassazione, che ha risolto il contrasto interpretativo formatosi all'indomani della legge Severino.

E a questi criteri si è attenuta la Corte d'appello, a prescindere dalla continuità normativa tra la vecchia e la nuova «induzione», che viene data per buona (anche se tra le righe traspare qualche perplessità) ma che tutto sommato resta sullo sfondo della decisione. I giudici di Milano hanno quindi calato quei principi nella realtà - la telefonata di Berlusconi al Capo di gabinetto Ostuni per ottenere l'affidamento di Ruby alla Minetti - concludendo che «manca il requisito essenziale dell'abuso induttivo: l'indebito vantaggio dell'extraneus».

La Corte ha escluso che quella telefonata fosse una minaccia, anche implicita (e quindi una concussione), ma non che fosse potenzialmente induttiva, altrimenti nella motivazione ci sarebbe un salto logico perché si passa direttamente a valutare il secondo elemento del reato, cioè il «vantaggio economico» dell'indotto. Che però viene escluso: non c'è prova che Ostuni abbia assecondato i desiderata dell'ex premier per un tornaconto personale. Ergo: «non ci sono le condizioni per una riqualificazione dei fatti in una diversa ipotesi di reato».

All'inizio del processo - quando ancora non si parlava di modificare la concussione o addirittura di abrogarla, come propose il Pd, prima della mediazione della legge Severino - la Procura aveva contestato a Berlusconi il reato di «concussione per induzione», senza fare mai riferimento - ricorda la sentenza d'appello - a possibili vantaggi personali di Ostuni: era un aspetto irrilevante, perché la vecchia induzione stava in piedi anche senza l'«indebito vantaggio» del concusso/indotto, divenuto elemento essenziale dell'«induzione» solo con la legge Severino così come interpretata dalle sezioni unite della Cassazione.

Al momento della requisitoria, in primo grado, la legge era stata approvata e in Cassazione era già emerso il contrasto ma le sezioni unite ancora non si erano pronunciate. La Procura chiese sempre la condanna per «induzione», il Tribunale condannò per concussione. E qualcuno spiegò quella decisione anche per "sfuggire" ai paletti rigidi posti nel frattempo dalle sezioni unite sull'«induzione».

La partita si riaprirà in Cassazione. La sentenza delle sezioni unite, infatti, non è priva di ambiguità perché da un lato riconosce (di fatto) che la struttura dell'«induzione indebita» è in discontinuità con la vecchia «concussione per induzione», dall'altro afferma la piena continuità normativa. Una contraddizione che, come ricorda la Corte d'appello, ha creato «qualche perplessità in dottrina». E perplessità è un eufemismo.

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