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Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2014 alle ore 19:54.
L'ultima modifica è del 20 ottobre 2014 alle ore 20:20.

Un partito «che si allarga», e soprattutto un partito «che vince». Matteo Renzi supera di un colpo il dibattito un po’ astruso tra partito liquido e partito solido e, riunendo la direzione del Pd convocata su sollecitazione della minoranza interna proprio per discutere della “forma partito”, delinea con poche parole la sua idea di partito: semplicemente un partito di governo.
Nell'idea politica del giovane segretario del Pd e premier – non a caso le due cariche sono e resteranno unificate – non c'è un'idea diversa di partito. È il modello americano che era alla base del Pd veltroniano, non a caso ricordato ieri durante i lavori della direzione da Giorgio Tonini, ora nella segreteria renziana. E la “vocazione maggioritaria” è stata citata dallo stesso Renzi per dare corpo al futuro Pd: un partito che elabora un programma di governo, sperabilmente vince e poi governa.
Non è il comitato elettorale paventato dalla sinistra, ma non c'è dubbio che un partito siffatto si mobilita al massimo sotto elezioni. Che qui da noi, come fa notare Tonini, si tengono per altro quasi ogni anno (tra livello europeo, nazionale, regionale e comunale). E per mobilitare verso la vittoria un partito del 40,8%, un «partito della nazione» come in un certo senso fu la prima Dc, non bastano certo gli iscritti, siano essi gli 800mila del 2009 o i quasi 300mila di oggi. Anche per questo Renzi segue a fatica la diatriba sul calo degli iscritti, limitandosi a ricordare che siamo a livello europeo (lo spagnolo Psoe ne ha 197.000, il francese Psf 250mila, il Labour inglese 190.000).
Bisogna guardare nel corpo elettorale che non è fatto certo di iscritti, e in particolare in quel popolo delle primarie di 3 milioni, per attingere sostegno e perché no anche risorse economiche in un tempo orfano di finanziamento pubblico dei partiti. Nell'entourage del premier ricordano che Obama vinse contro i repubblicani con la logica delle piccole donazioni: 10 dollari per migliaia di persone.
Un partito siffatto più che di iscritti ha bisogno di una legge elettorale che esalti la “vocazione maggioritaria”. Ieri Renzi ha difeso l'impianto dell'Italicum frutto del patto del Nazareno con Silvio Berlusconi perché grazie al ballottaggio regala agli italiani un vincitore certo, ed è la prima volta nella storia delle leggi elettorali italiane. A questo impianto manca solo una cosa per realizzare il sogno del Pd renziano: il premio di maggioranza dato alla lista e non più alla coalizione. Un modo per far fuori in un sol colpo anni e anni di «veti dei piccoli partitini» e mettersi sul binario della vittoria quasi senza concorrenti.
La coalizione, a modo suo, Renzi la ripropone dentro il suo partito, spalancando le porte all'ala dissidente di Sel (Gennaro Migliore e la sua Led) e a quella parte di Scelta civica che si rifà ad Andrea Romano e allo stesso Mario Monti. Per incorniciare il quadro manca appunto solo il premio alla lista e non alla coalizione. Nel loro ultimo incontro a Palazzo Chigi, il 17 settembre scorso, Renzi e Berlusconi hanno affrontato il problema. Berlusconi non ha chiuso all'ipotesi del premio alla lista ma non ha neanche dato il suo assenso. Anche per questo l'Italicum, in coda in commissione Affari costituzionali del Senato dopo il sì della Camera, può attendere ancora un po'.
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