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Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2014 alle ore 19:11.
L'ultima modifica è del 20 ottobre 2014 alle ore 21:48.
La polemica tra Washington e Ankara ha raggiunto nelle scorse settimane alti livelli di tensione, sfociati nelle dichiarazioni del vicepresidente Joe Biden sulla complicità di Erdogan nel passaggio di migliaia di jihadisti alla frontiera con la Siria: Biden ha dovuto scusarsi per la gaffe ma in realtà ha detto quello che tutti sanno da tre anni. I jihadisti, che Erdogan ha definito con sarcasmo dei «turisti», sono stati incoraggiati a varcare il confine per abbattere il regime di Assad che nel 2011 secondo il governo turco doveva cadere in poche settimane. È su questi calcoli sbagliati che i jihadisti sono usciti fuori controllo, hanno dato vita a movimenti sempre più radicali fino ad affluire tra le schiere dello Stato Islamico.
Gli Stati Uniti hanno come alleati Paesi come la Turchia, l’Arabia Saudita o gli Emirati che con questa guerra intendono ridisegnare la mappa del Medio Oriente, scardinare il potere sciita a Teheran e quello alauita a Damasco, dando vita a uno stato islamico a maggioranza sunnita tra Siria e Iraq. Il Califfato è una sorta di anticipazione di questo progetto, un mostro provvidenziale che si presta allo scopo: prima di essere eliminato deve crearsi una situazione in cui viene resa possibile una nuova entità statuale sunnita in mezzo alla Mesopotamia.
L’ultima guerra in Medio Oriente è da un certo punto di vista anche la più paradossale degli ultimi 40 anni: i prezzi del petrolio invece di salire come sempre è accaduto in passato stanno scendendo sotto gli 80 dollari. La spiegazione è politica, oltre che economica (calo della domanda, aumento dell'offerta): l'obiettivo di questo conflitto non è far fuori i jihadisti ma pilotare la caduta di Bashar Assad in Siria e mettere con le spalle al muro gli sciiti in Iraq, per renderli più ragionevoli con la minoranza sunnita.
A guidare il ribasso, aumentando la produzione petrolifera, sono i sauditi (quasi 10 milioni di barili al giorno, un terzo della produzione Opec) che stanno orchestrando una manovra con conseguenze geopolitiche assai gradite agli americani: creare altri problemi all’economia della Russia e a quella dell’Iran, due stati nemici sotto sanzioni che dipendono per i loro bilanci dall'export di gas e petrolio.
È anche per questi motivi che la guerra al Califfato appare assai poco convincente. Del resto la Turchia e i sunniti non possono che lamentarsi della politica americana nella regione: dal 2003, con la caduta di Saddam Hussein, hanno creato un’area di instabilità ingovernabile e hanno permesso a Israele di fare di Gaza una sorta di poligono di tiro. I sunniti oggi si sono alleati con gli americani non per servire i loro scopi ma per condizionarli.
Le colpe dell’Europa
Quanto all'immagine della Turchia, il governo ha deciso di avviare una campagna, con il sostegno di società internazionali di relazioni pubbliche, per dimostrare che Ankara è pronta per entrare nel consesso europeo.
Ma la Turchia ha già dato addio da un pezzo al treno europeo perché da Bruxelles non è mai partito un Orient Express per il Bosforo. I leader europei per anni hanno spinto i turchi a fare riforme convinti che Ankara non ce l'avrebbe mai fatta. E quando il Paese con il miracolo dell’era Erdogan (la Turchia è la sedicesima economia mondiale) è arrivato non lontano dal traguardo, la Francia e la Germania si sono messe di traverso perché non hanno mai avuto intenzione di far sedere Ankara nel club europeo. E adesso si raccolgono gli effetti devastanti di una politica europea miope e ipocrita, con i turchi e con tutti i mediorientali, cristiani compresi.
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