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Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2014 alle ore 06:40.
L'ultima modifica è del 22 ottobre 2014 alle ore 08:20.

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Matteo Salvini (LaPresse)Matteo Salvini (LaPresse)

«Il Po e l'Etna uniti nella lotta»: Francesco Jori, legologo e allievo di Giorgio Lago, la svolta di Matteo Salvini la vede così. Un paradosso, uno dei tanti ai quali la Lega Nord ci ha abituato negli ultimi vent'anni.

Le parole d'ordine scorrono a seconda delle congiunture politiche, le alleanze, gli umori dell'elettorato, i tempi. Il maestro è sempre lui, l'Umberto, uno che ai tempi d'oro sfornava una missione a settimana: autonomismo-federalismo-secessione-Padania, fino ad accontentarsi di uno statuto speciale virtuale per il lombardo-veneto, derubricato, vent'anni dopo la fondazione Agnelli, a macroregione. Matteo ha un modo tutto suo di ricordare le topiche di chi lo ha preceduto: «Ho preso un partito al tre per cento» ripete sempre. E poi, in un colpo solo, uccide il padre e frantuma il tabù della saga bossiana: «Non mi interessa la Padania libera se chiudono le fabbriche».

Salvini è un cane da tartufo, uno che annusa e scava con folgorazioni che ricordano l'epifania bossiana. È rapido, intuitivo, un attor giovane che ha metabolizzato la valanga di errori (e di compromessi) del capo. L'altro Matteo, quando si dice l'onomastica, è uno che agisce e progetta per differenza, cercando di evitare prima di tutto i colpi a vuoto. La sua teoria dei tre deserti è scritta nelle cose: il malumore crescente degli italiani, l'implosione della destra da Bolzano a Siracusa, il rallentamento progressivo delle locomotive industriali del Paese, una volta il granaio della Lega. Solo con Berlusconi in sella e con una copertura elettorale omogenea di Forza Italia, dal Nord a Sud, la Lega poteva accontentarsi della dimensione territoriale. Di fronte al cambiamento, a Salvini non resta che buttarsi in basso (a sud del Garigliano) e a destra. Ecco spiegate le incursioni a Napoli e a Maletto, alle falde dell'Etna, i tentativi, non nuovissimi, di far nascere una Lega del Sud.
Palermo non è Vicenza e i siciliani, ammette il segretario lumbard, non sono tutti mafiosi o forestali. Precisazioni foriere solo di equivoci per la sua musa ispiratrice, Marine Le Pen. Il bene è tutto all'interno dai confini di una nazione, il male sempre fuori. Basta intendersi sui confini, che la Lega ha allentato prima dal Piave all'Arno – confini di acqua dolce, dunque – ora fino a quelli salatissimi del Canale di Sicilia e di Lampedusa, il luogo in cui, dopo la strage dei migranti del 3 ottobre dell'anno scorso, la Le Pen bruciò sul tempo l'altro Matteo con la sua passeggiata trionfale tra gli isolani.

I voti per la Lega arrivano anche a Lampedusa (il 17% alle ultime europee) ma la sua ristoratrice-senatrice (ex), Angela Maraventano, nel collegio Isole ha racimolato solo 546 voti di preferenza. È andata peggio ad Alimena, un paesotto di 2mila anime appollaiato sulle montagne delle Madonie, non lontano da Palermo, (22% di voti alla Lega). L'ex sindaco Giuseppe Scrivano, candidato sconfitto con Nello Musumeci alle regionali del 2012, fu investito dai vertici di via Bellerio del ruolo di leader di una nascente Lega siciliana. Un'innovazione prima di tutto lessicale: dai maroniti (i seguaci di Bobo Maroni) ai madoniti. Peccato che la nomina a leader isolano, in un colpo solo, abbia fatto perdere a Scrivano il posto di sindaco e quello di aspirante deputato (si era candidato per la Lega Nord nel 2013). Poteva finire qui, ma subito dopo le Politiche i Ros gli recapitano un avviso di garanzia per voto di scambio con una famiglia mafiosa di Bagheria. Spot del sindaco a favore di telecamera: «La Lega è un partito perfetto!». Lui, forse, un po' meno.

Dubbioso sulle vere attitudini dei siciliani, il giovane Matteo ha scelto di riparare tra i lumbard, gente per bene, "i 40mila", non per numero ma per espressione radicale di un pensiero, che sabato scorso hanno sfilato a Milano contro i migranti clandestini, contro la crisi, contro l'euro. La fobìa sulla moneta unica, eletta a nemico numero uno, come osserva Stefano Bruno Galli, docente di Dottrine politiche a Milano e capogruppo di Regione Lombardia in una lista collegata a Maroni presidente, rileva «una contraddizione». Spiega Galli: «I movimenti autonomisti avrebbero tutto da guadagnare dalla sottrazione di poteri agli Stati nazionali e dalla nascita di un'Europa dei popoli. Difficile concepire questa costruzione senza l'euro».
Nell'attesa di una riflessione sull'argomento, il neo segretario mostra consensi inoppugnabili: sempre multipli di tre, quindi dal sei al nove. La ricetta sicul-lepenista funziona. «Le cose facili non mi sono mai piaciute» chiosa l'altro Matteo, mentre il Po e l'Etna, almeno per il momento, stanno a guardare
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