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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2014 alle ore 07:33.
L'ultima modifica è del 31 ottobre 2014 alle ore 10:19.

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MILANO - Il 66% delle aziende italiane attive nel comparto siderurgico ha registrato nel 2013 un calo di fatturato. Nell'ultimo triennio la redditività è precipitata: le strutture finanziarie dei principali produttori non sono tecnicamente a rischio, ma non sono più adeguate all'attuale capacità di generare reddito.

I numeri dei conti economici e degli stati patrimoniali (oltre 2.500 realtà tra produttori, trasformatori, distributori, centri servizio e commercianti di rottame), analizzati dal portale di settore Siderweb nell'annuale edizione di «Bilanci d'acciaio» evidenziano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la filiera dell'acciaio ha il fiato corto. Le risorse accumulate negli anni d'oro precedenti alla crisi si stanno per esaurire: c'è chi è pronto a scommettere su un «redde rationem» nel settore già entro i prossimi due anni. Una definitiva razionalizzazione della capacità produttiva installata che sembra, da qualche mese a questa parte, l'unica richiesta esplicita del mercato, in sovraproduzione sia a livello nazionale che a livello europeo.

Ad oggi le tessere del domino non hanno ancora iniziato a cadere, ma i segnali di questi ultimi anni, anche e soprattutto in Italia, sono evidenti: la corda è fin troppo tirata. Dall'inizio della crisi, secondo i dati di Federacciai, gli oltre 39mila occupati del settore sono scesi a circa 36mila unità. Nel 2013 le ore lavorate sono calate del 5,6%, mentre le ore di cassa integrazione sono aumentate del 70%, da 3,3 a 5,5 milioni (35 milioni in tutto il comparto metallurgico nei primi otto mesi del 2014).

I principali polmoni siderurgici italiani (Taranto, Piombino, Terni) pagano difficoltà politiche e gestionali. La situazione emergenziale di questi giorni non deve fare dimenticare, però, che le sirene dell'allarme «ordinario» avevano già iniziato a suonare anni fa, dall'autunno del 2008. All'inizio del 2009 la famiglia Riva, che aveva già iniziato a rallentare la produzione dell'Ilva proprio alla fine dell'anno precedente, in concomitanza con i primi segnali di crisi del settore, aveva deciso di mettere in cassa integrazione a rotazione a Taranto oltre 4mila dipendenti, motivando la decisione con la «gravissima crisi finanziaria» e con «il crollo della domanda dell'acciaio».

A fine aprile dello stesso anno un'altra pesante decisione: stop all'altoforno 2, produzione drasticamente ridotta (da 26mila tonnellate al giorno a 7mila) con metà degli addetti praticamente fuori dal ciclo produttivo. Stesso copione alla Lucchini. L'altoforno di Piombino (oggi è chiuso, e il gruppo è in amministrazione straordinaria) nel 2009 marciava al 50% del potenziale. In quel periodo il management (la proprietà era dei russi di Severstal) ha avviato un piano di taglio dei costi.

Il primo piano di ristrutturazione è del 2010, mentre nel 2011 viene approvato un piano di risanamento che prevede la cessione di asset: la francese Ascometal, Bari fonderie meridionali, ma soprattutto il simbolo dell'«impero» costruito da Luigi Lucchini negli anni: il «palazzo di vetro» di Brescia, dove aveva sede il quartier generale del gruppo. Alla fine del 2012, falliti i tentativi di salvataggio, Lucchini viene ammessa all'amministrazione straordinaria. Oggi i circa 2mila dipendenti sono in solidarietà, in attesa di conoscere il nome del nuovo proprietario (in lizza ci sono gli indiani di Jindal e gli algerini di Cevital): la società, secondo i dati più recenti, ha fatturato nei primi sei mesi dell'anno 261 milioni, contro i 759 dell'intero anno precedente.

Anche Ast, che in queste settimane sta vivendo la difficile vertenza relativa al piano esuberi deciso dalla proprietà tedesca di ThyssenKrupp, aveva già varato negli ultimi anni un primo piano di ristrutturazione con mobilità incentivata. Sempre nel settore, Berco (produce componenti per macchine movimento terra) ha messo in mobilità nella primavera dell'anno scorso 611 lavoratori (con incentivi all'esodo): all'epoca della vertenza l'ad dell'azienda, di proprietà del gruppo ThyssenKrupp, era Lucia Morselli, oggi al vertice di Ast.

Pesante anche la ristrutturazione decisa dal gruppo Beltrame di Vicenza in questi ultimi mesi. Il piano industriale ha comportato in Italia la chiusura del sito di Marghera (parte dell'area dell'ex Sidermarghera, specializzata nella produzione di cingoli per il movimento terra, è attualmente in vendita) e il riassetto dei poli di San Didero (stop all'acciaieria, mantenimento del laminatoio e ricorso a cassa e mobilità) e San Giovanni Valdarno. All'estero il gruppo ha chiuso due laminatoi, in Belgio e in Lussemburgo. Il piano industriale ha però permesso al gruppo di raggiungere con le banche creditrici il riscadenzamento del debito finanziario.

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