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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2014 alle ore 15:35.
L'ultima modifica è del 31 ottobre 2014 alle ore 15:59.

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Giorgio Napolitano (Ansa)Giorgio Napolitano (Ansa)

Ci sono volute 147.784 battute e 85 pagine di verbale per racchiudere l'udienza svolta al Quirinale il 28 ottobre dal presidente Giorgio Napolitano nell'ambito del processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Davanti a lui il pool della procura della Repubblica che sta portando avanti, tra mille difficoltà, il procedimento penale e gli avvocati difensori degli imputati.

Napolitano è stato chiamato tra i 176 testimoni, per riferire in ordine alle preoccupazioni espresse suo consigliere giuridico Loris D'Ambrosio nella lettera del 18 giugno 2012 (pubblicata su “La Giustizia. Interventi del Capo dello Stato e Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. 2006-2012”) concernenti il timore di D'Ambrosio stesso «di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi», e ciò nel periodo tra il 1989 e il 1993. La deposizione di Napolitano procede per step logici, a partire dal suo rapporto con D'Ambrosio, deceduto il 26 luglio 2012.

Il consigliere giuridico
Il rapporto, chiarisce il Capo dello Stato, era quotidiano, magari anche solo telefonico, con lui come con gli altri consiglieri. Un rapporto professionale ma mai personale. Il procuratore aggiunto Salvatore Teresi chiede se, prima di inviargli la lettera di dimissioni dall'incarico di consigliere, D'Ambrosio gliela avesse annunciato. Napolitano risponde di no ma, al contempo, chiarisce che gli aveva «trasmesso un senso di grande ansietà e anche un po' di insofferenza per quello che era accaduto con la pubblicazione delle intercettazioni di telefonate tra lui stesso e il senatore Mancino, insofferenza che poi espresse più largamente nella lettera…La lettera per me fu come un fulmine a ciel sereno, ne rimasi molto colpito e il giorno dopo, subito lo pregai di venire nel mio ufficio…».

L'inutile scriba
La domanda di Teresi va poi al cuore della paura di D'Ambrosio «di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». Teresi chiede se mai il consigliere parlò al Capo dello Stato dei suoi tormenti, della loro origine, delle cause del vivo timore di essere considerato uno scriba. Napolitano risponde «assolutamente no…Ho constatato de visu il suo profondissimo stato di ansietà e anche di indignazione, perché un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita ala servizio dello Stato, che si era con grande entusiasmo dedicato alla funzione di scriba…».
Relazioni antimafia.

Teresi insiste sul malessere interiore di D'Ambrosio, allorché nella lettera indirizzata a Napolitano sottolinea la volontà di voler tornare a fare indagini dopo aver letto e riletto le audizioni della Commissione antimafia. Napolitano, però, non sa a quali audizioni si riferisse e perché potesse desiderare di tornare a indagare come fece all'epoca del terrorismo nella Procura di Roma.

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