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Questo articolo è stato pubblicato il 04 novembre 2014 alle ore 06:38.

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ROMA
«Se il Parlamento volesse intervenire sarebbe più sano. Tra il Parlamento e il giudice, preferisco sempre il Parlamento» dice il presidente (in scadenza) della Corte costituzionale Giuseppe Tesauro a proposito dell'ipotesi di una modifica legislativa del "decreto Severino" sull'incandidabilità, che il Tar Campania (dopo aver reintegrato Luigi De Magistris alla guida del comune di Napoli) ha spedito alla Consulta per dubbi di costituzionalità su due punti: la sospensione dalla carica di amministratore locale dopo una condanna di primo grado e la retroattività della misura. Di modifica legislativa si è infatti cominciato a parlare all'indomani della decisione del Tar, sebbene fosse già allo studio di Palazzo Chigi prima di quella decisione, con riferimento alla norma sulla sospensione, ritenuta lesiva della presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva e, inoltre, tale da creare una disparità di trattamento con i parlamentari (per i quali scatta solo la decadenza e dopo la condanna passata in giudicato). L'eventuale modifica avrebbbe dovuto essere approfondita dalla Giustizia e dalla Funzione Pubblica, cioè da due dei ministeri che nel 2012 "partorirono" il decreto legislativo n. 235 sull'incandidabilità, di «concerto» con il ministero dell'Interno. Nel frattempo è arrivato il Tar, che ha ridato impulso all'esigenza di una correzione, anche se, paradossalmente, sembra che nessuno se ne stia occupando. Di più: da via Arenula fanno sapere di non essere competenti in prima battuta (tant'è che escludono di avere il tema all'ordine del giorno) e rimandano la palla a Interni e Funzione pubblica. Ma anch'essi escludono input politici.
Le parole di Tesauro lasciano pensare che, in mancanza di una modifica legislativa, il decreto Severino possa davvero rischiare una brutta figura davanti alla Consulta, che deciderà tra 6-7 mesi («i tempi sono fisiologici» ha precisato il presidente della Corte). D'altra parte, nessuno finora ha smentito le voci secondo cui il ricorso alla Corte avrebbe messo le ali ai piedi alle modifiche proprio per scongiurare l'incostituzionalità delle norme che hanno estromesso Silvio Berlusconi dal Parlamento, con la sua decadenza da parlamentare dopo la condanna nel processo Mediaset-diritti Tv. L'ex premier aveva chiesto al Senato di rivolgersi alla Consulta prima di decidere, affinché fossero chiariti i dubbi sulla retroattività delle norme sulla decadenza (rispetto a fatti pregressi, per i quali poi intervenga la condanna). La sua richiesta, però, fu respinta, ma sulla questione ora pende un ricorso alla Corte di Strasburgo (che ancora non si è pronunciata). Ovviamente, la decisione del Tar riapre la partita, anche se riguarda solo il caso degli amministratori locali. Quanto basta per ridare voce a Berlusconi. «L'assoluzione a Milano nel processo Ruby e la decisione del Tar Campania di rinviare alla Corte costituzionale la legge Severino, che ha causato la mia ingiusta espulsione dal Senato, fanno sperare che dopo tanti mesi oscuri la giustizia possa prevalere sulla convenienza politica» ha detto il leader di Fi. «Abbiamo tutti questa speranza» ha replicato a distanza Tesauro sollecitato dai cronisti, ovviamente senza nessuna presa di posizione sulla presunta «persecuzione» lamentata da Berlusconi. Che nel suo libro in uscita - «Italiani voltagabbana» - definisce «un sacrilegio» l'applicazione retroattiva del decreto Severino. «Uno sfregio», sentenzia Maurizio Gasparri, che chiede al premier Renzi di «non ignorare questo vulnus e di porvi riparo» tanto più ora che si è «aperto un dialogo sulle regole».
Il decreto sull'incandidabilità fu partorito dalla triade Patroni Griffi, Cancellieri, Severino, cioè Funzione pubblica, Interni, Giustizia. Quest'ultima intervenne essenzialmente sul catalogo dei reati che, in caso di condanna, avrebbero fatto scattare la decadenza (o la sospensione o l'incandidabilità). Forse anche per questo, oggi, il guardasigilli Andrea Orlando si chiama fuori, sebbene la "maternità" del decreto sia stata finora attribuita solo alla Giustizia, in persona della Severino. Certo, proporre una modifica è come ammettere di aver forzato la mano all'epoca. E se, nel 2012, Renzi non c'era, Orlando sì. Ecco perché c'è chi preferirebbe attendere il verdetto della Consulta (tra l'altro i 5 Stelle sono già sul piede di guerra contro possibili modifiche), anche se ciò significa applicare in concreto una norma potenzialmente incostituzionale.
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