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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2014 alle ore 08:13.

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Del fatto che l'indice di rivalutazione del montante contributivo potesse diventare negativo erano consapevoli gli addetti ai lavori. Infatti anche se si chiama indice di rivalutazione, la sua modalità di calcolo non prevede un meccanismo di salvaguardia che scatti qualora la media quinquennale della variazione del prodotto interno lordo dia un risultato sotto lo zero.
Ma anche il Parlamento, o almeno una parte di esso, ha ben presente il problema, e non da ieri. Il 17 febbraio di quest'anno è stato presentato alla Camera un disegno di legge (proponenti l'ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, e come prima firmataria Maria Luisa Gnecchi del Pd) in cui si indica una soluzione per evitare l'applicazione di un tasso negativo.
Nel dettaglio il disegno prevede che, a fronte di un valore negativo del Pil nominale per due annualità consecutive, «il governo è autorizzato a procedere» utilizzando come periodo utile per il calcolo dell'indice di rivalutazione non il quinquennio immediatamente precedente l'anno di riferimento (come previsto oggi dalla legge) ma «il quinquennio antecedente le annualità di crescita negativa del Pil». Una sorta di "congelamento" delle ultime condizioni economiche di miglior favore in attesa che il prodotto interno lordo ricominci a crescere e per garantire, nel frattempo, la rivalutazione di quanto accumulato.
Il problema di aver agganciato la rivalutazione del montante contributivo all'andamento del Pil si incrocia con un altro aspetto del sistema contributivo, cioè i coefficienti di trasformazione che vengono utilizzati per determinare l'importo dell'assegno mensile della pensione proprio a partire dal montante e tenendo conto dell'età del lavoratore al pensionamento. L'incrocio tra montante e coefficiente è stato studiato per mantenere in equilibrio il sistema garantendo una proporzione tra quanto si è versato e quanto si riscuoterà una volta terminato di lavorare. Tuttavia il bilanciamento dei conti non garantisce automaticamente l'adeguatezza dei trattamenti. Con la legge 247/2007 era stata quindi prevista la possibilità di intervenire su più fattori, anche con politiche attive, al fine di raggiungere un tasso di sostituzione netto (il rapporto tra ultima retribuzione e primo assegno pensionistico) di almeno il 60% per i lavoratori dipendenti. Le stime più recenti, pubblicate quest'estate dalla Ragioneria generale dello Stato, si collocano sopra tale soglia, ma con una variazione media del Pil dell'1,5% sul lungo periodo. Uno scenario lontano dalla situazione attuale.
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