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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2014 alle ore 08:13.

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Sandro
Gronchi Negli schemi a capitalizzazione di secondo pilastro (previdenza complementare) gli individui sono autosufficienti nel senso che la loro pensione si configura come la restituzione dei contributi versati al lordo dei rendimenti fruttati dalle attività finanziarie in cui sono rimasti investiti. In forza di ciò, la capitalizzazione è immune dal "fallimento".
Gli schemi a ripartizione di primo pilastro (previdenza obbligatoria) si fondano, invece, su un patto intergenerazionale che impegna Enea a portare sulle spalle Anchise. Più precisamente, i contributi versati da ogni generazione devono finanziare le pensioni della precedente. Il rischio di fallimento incombe ogni volta che la spesa sorpassa il gettito. I governi sono allora chiamati a manovre di riequilibrio, non sempre adeguate perché politicamente costose, che abbattono la spesa e/o inaspriscono la contribuzione.
Il cosiddetto sistema contributivo, che l'Italia fece la scelta di sperimentare nel 1995, è una modalità della ripartizione con ambiziosi obiettivi, fra i quali quello di garantire il pareggio di bilancio in via "automatica". Il sistema simula la capitalizzazione commisurando la pensione ai contributi versati. Come la capitalizzazione autentica, così quella virtuale prevede che i contributi siano remunerati.
Dalla scelta del rendimento dipende la generosità dei montanti contributivi e quindi delle pensioni da essi generate. La teoria economica ha dimostrato che le pensioni contributive assommano a una spesa tendenzialmente uguale al gettito, a condizione che il rendimento sia scelto uguale al tasso di crescita dei redditi da lavoro. La diversa scelta del legislatore del 1995, che optò per il tasso di crescita del Pil, è legittima a condizione che restino costanti le quote distributive, e quindi l'incidenza percentuale dei redditi da lavoro sullo stesso Pil. L'evidenza empirica non sembra avvalorare tale ipotesi.
A parte questo, i cicli economici destabilizzano la crescita del Pil (ma anche dei redditi da lavoro) producendo un rendimento altalenante. La sostenibilità tendenziale non è alterata se il trend viene "ripulito" dal ciclo, cioè il rendimento è assunto uguale alla crescita tendenziale del Pil anziché annua.
Proprio questa fu la scelta del legislatore nel 1995 che assunse un rendimento uguale alla crescita media del Pil nell'ultimo quinquennio. Tuttavia, in presenza di fasi depressive prolungate, il quinquennio rischia di non bastare, come dimostra la notizia, in realtà attesa, che è moderatamente negativo (0,1927%) il rendimento del 2014, deputato a rivalutare, al prossimo 31 dicembre, i montanti contributivi in essere un anno prima.
Bene farebbe il legislatore a reagire prontamente trasformando l'attuale rendimento quinquennale in uno decennale, cioè assumendo, quale rendimento sostenibile, la crescita media del Pil nell'ultimo decennio.
Una serie di elaborazioni statistiche mostrano che il rendimento decennale resterebbe positivo (1,5119%) anche nel 2014, in realtà superando quello quinquennale fin dal 1997.
Lo stesso lavoro di elaborazione presenta altri motivi di interesse. Infatti, mostra che, nel periodo dal 2000 al 2013, il rendimento offerto dal primo pilastro è stato non solo più stabile di quello offerto dal secondo ma anche mediamente superiore. Cumulativamente, ha raggiunto il 75,53% contro il 48,80 per cento.
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I NUMERI
- 0,1927%
Il valore su cinque anni
L'indice di rivalutazione negativo che è stato ottenuto dall'Istat sulla base dell'andamento del Pil degli ultimi cinque anni. L'indicazione del metodo di calcolo è contenuta nell'ambito della legge di riforma del sistema pensionistico che è stata varata nel 19995
+ 1,5119%
Il valore su dieci anni
L'indice di rivalutazione avrebbe segno positivo qualora fosse rideterminato tenendo conto dell'andamento del prodotto interno lordo di dieci anni.
Un nuovo criterio di calcolo consentirebbe di assorbire con maggiore facilità
le oscillazioni del Pil

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