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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2014 alle ore 06:40.
di Roberto Da Rin
Dalla narcopolitica alla necropolitica. Una caleidoscopio di corruzione, business e morte. Alimentato dalla droga
Brucia, il Messico brucia. L'uccisione dei 43 ragazzi che si apprestavano a manifestare contro il narcotraffico è l'epifenomeno di un quadro già drammatico. Un gruppo di insegnanti ha dato fuoco al Congresso dello Stato di Guerrero, uno dei più collusi con i narcos. Due giorni fa la sede del Pri, il Partito rivoluzionario istituzionale, da sempre al governo, è stata incendiata.
La società civile si ribella al massacro dei ragazzi proprio perché l'ordine è arrivato direttamente dalle istituzioni: il sindaco di Iguala, José Luis Abarca, e la moglie Maria de los Angeles Pineda, entrambi preoccupati per la manifestazione antidroga che i giovani si apprestavano a organizzare, sono i mandanti della strage del 26 settembre scorso. Allarmati per l'eccessiva visibilità dei giovani, hanno attivato i sicari.
Chissà, le parole del sindaco saranno state molto simili a quelle del dittatore messicano Porfirio Diaz, la cui frase «matenlos en caliente», riferita ai suoi oppositori, divenne celebre. Era il 1880.
La storia si ripete 134 anni dopo. Verrebbe da dire un Paese senza speranza se ci si limitasse a guardare i numeri: 80mila morti in dieci anni, vittime del narcotraffico. Eppure il Paese cresce, l'economia corre, produce beni, servizi e cultura. Forse un po' in simbiosi con gli Stati Uniti, di cui è geograficamente contiguo.
Amexica è il titolo di un bel libro di Ed Vulliamy che mette a fuoco l'intreccio perfetto e maledetto di droga, armi, ingenti flussi di denaro e banche. Questo è il punto nodale: le armi dei narcos arrivano dagli Stati Uniti e la loro droga viene venduta negli Stati Uniti, il principale mercato di sbocco. I messicani dicono di essere « troppo lontani da Dio e troppo vicini agli Stati Uniti». Lo ripetono come giustificazione ai loro problemi atavici o almeno antropologici. Il narcotraffico è però "il" problema che, per antonomasia, andrebbe affrontato in sincronia. I tre ultimi presidenti messicani, Vicente Fox, Felipe Calderon ed Enrique Pena Nieto, ci hanno provato, cercando una sponda al di là del Rio Grande. Oltre alla rassicurazioni della controparte americana non sono mai arrivati accordi di collaborazione.
La narcoeconomia offre due prodotti, secondo i funzionari dei servizi antiriciclaggio inglesi: droga e sofferenze. Da un lato grandi ricchezze, lauti guadagni; dall'altro indicibili sofferenze, miseria e morte. I due fattori non si possono separare. Il ruolo delle banche è determinante.
Il colosso bancario Hsbc, la più grande banca d'Europa, solo pochi anni fa, nel 2010, custodiva somme enormi provenienti dal Cartello di Sinaloa (uno dei più potenti del Paese), tramite la casa de cambio Puebla. Decine di miliardi di dollari, dopo un transito alle Cayman, sono arrivati a New York. Una indagine del responsabile del Dipartimento penale del ministero della Giustizia Usa, Lenny Breuer, rivelò che gli emissari del cartello entravano nelle filiali della banca Hsbc centinaia di migliaia di dollari in contanti in un solo giorno, su un unico conto corrente.
L'intreccio tra politica e crimine pare inestricabile anche secondo lo scrittore Diego Enrique Osorno che nel suo libro "Z. La guerra dei narcos" spiega bene come il cartello de Los Zetas sia costituito da imprenditori armati, in una struttura sia verticale sia orizzontale, in cui il capo è meno importante del gruppo. Assimilabile, per potenza organizzativa alla Coca Cola. Se si rimuove l'amministratore delegato se ne mette un altro. La struttura è consolidata e non ne risente. Questa è la narcomodernità.
Osorno lancia un allarme quando osserva i giornali messicani che discettano sul numero delle vittime con la calcolatrice in mano, senza peraltro riuscire a ottenere numeri precisi. Molte famiglie, per timore di rappresaglie, non denunciano la morte dei parenti. È tutto facile, con 80 euro si affitta un killer, difficile sia processato e tanto meno condannato.
Il grido di dolore di Javier Sicilia - un poeta messicano di origini italiane il cui figlio di 24 anni è stato ucciso per errore, da due capetti locali, " El Negro" e "El Jambon" - è lungo 11mila chilometri. Sicilia ha percorso il Paese, a nord e a sud di Città del Messico, alla guida di un movimento pacifista che si fa sentire dal 2010. Ha trasformato il dolore in lotta e incarna la ribellione contro la violenza dei cartelli della droga. L'auspicio di una rifondazione dello Stato. Intanto però il sito dei narcos va forte e non è oscurato. Basta digitare www.elblogdelnarco.com
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