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Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2014 alle ore 14:10.

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L’Italia può recuperare nove punti di Pil e 1,8 milioni di posti di lavoro in quattro anni se punta con decisione sui mercati esteri. La stima è contenuta in uno studio di Sace, la società di credito all’export controllata dalla Cassa depositi e prestiti, intitolato «Alla ricerca della crescita perduta. Opportunità e ritorni di un'Italia più internazionale» e presentato oggi da Roberta Marracino, direttore area studi e comunicazione del gruppo.

Missione impossibile? Assolutamente no. A patto che il nostro Paese riesca a raggiungere nel 2018 un'incidenza dell'export sul PIL del 44% dal 33% di oggi. Potremmo così generare nuove esportazioni per circa 40 miliardi di euro l'anno, con un incremento di reddito nazionale tra quattro anni intorno ai 125 miliardi di Euro, pari a una crescita del 9% rispetto al Pil attuale. «Considerando l'elasticità dell'occupazione rispetto al Pil - afferma il rapporto - questo impatto si tradurrebbe in 1,8 milioni di nuovi posti di lavoro».

Come fare? Seguendo la strada imboccata da altri Paesi europei, come Germania e Spagna. Tra il 2007 e il 2013 infatti il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil è stato positivo per 7,5 punti percentuali in Germania, 4,5 in Spagna, 1,1 in Francia, -0,9 in Italia (pari a circa 13 miliardi in meno a valori costanti). Germania e Spagna, in particolare, che già nel 2007 registravano rispettivamente un'incidenza dell'export sul PIL del
47% e 31%, hanno accelerato la loro presenza nei mercati esteri.

Nel 2017 la Germania raggiungerà un'incidenza dell'export sul PIL del 58% (25
punti percentuali più dell'Italia), la Spagna del 41% (+ 8 punti percentuali). Il risultato, spiega Sace, «è stato conseguito sia grazie a una strategia di diversificazione dei mercati di destinazione pensata – e realizzata – per tempo, sia grazie a una più generale overperformance su tutte le aree geografiche». Tra il 2000 e il 2013 le esportazioni tedesche e spagnole verso l'Europa sono cresciute a un ritmo doppio rispetto a quelle italiane; quelle verso i Paesi avanzati extra-europei hanno registrato incrementi superiori di 4-6 volte.

La via insomma è obbligata. Le nostre aziende devono guardare oltrefrontiera per aumentare ricavi e margini. Il confronto ci vede infatti perdenti: nella fascia di aziende con 10-49 dipendenti, solo il 29% delle Pmi italiane esporta, contro il 47% delle tedesche e il 48% delle spagnole. Il divario non diminuisce nelle medie imprese (fascia tra 50 e 249 dipendenti), con il 49% di aziende italiane che esportano contro il 68% in Germania e addirittura l’85% in Spagna.

Come centrare il traguardo dei 40 miliardi di export in più? Metà di questa cifra, sostiene Sace potrebbe essere recuperata nei mercati emergenti a basso-medio rischio e in crescita: circa 13 miliardi attraverso una migliore penetrazione di 5 Paesi (Cina, Polonia, Algeria, Turchia e India), altri 6 miliardi in Medio Oriente (Emirati Arabi, Arabia Saudita, Kuwait), Sud America (Messico e Brasile), in Asia (Corea del Sud, Repubbliche del Caucaso, Vietnam), ma anche in Tunisia, unico paese stabile della sponda Sud del Mediterraneo. La missione, insomma, è possibile.

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