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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2014 alle ore 07:27.

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AgrigentoAgrigento

La frana è continua. Dal 1966: il monte, cuore pulsante della città, continua a cedere. E insieme al monte sta venendo giù il Duomo, crollano le case, scappano le persone. In un colpo solo in quei lontani anni Sessanta ne furono trasferiti seimila. Ma l'emorragia non si è mai veramente fermata. Una frana costante che negli ultimi anni è diventata più insistente e minacciosa. Il centro storico che si spopola, il senso di impotenza che si impossessa delle persone, come un diavolo contro cui si batte la Chiesa qui guidata da Francesco Montenegro. La frana è la metafora di questa città, Agrigento, che scivola sempre più giù. Ultima nella classifica sulla Qualità della vita del Sole 24 Ore ed è la terza volta che accade nel volgere di pochi anni: ultima nel 2007, ultima nel 2009. Certo è pur vero che si tratta di numeri che coinvolgono l'intera provincia ma qui le province sono tre o quattro e ciascuna ha le sue: oltre Agrigento c'è Sciacca, Canicattì, Menfi, Licata.

Ma la frana, quella sì, è unica e rischia di portare a valle quella splendida veduta della Cattedrale in cui fu trovato Giovanni Paolo II dopo che la sicurezza del Vaticano lo aveva cercato dappertutto: se ne stava lì guardare l'infinita bellezza ferita da cemento e ingiustizie in una parentesi dello storico viaggio in cui il grande Papa tuonò contro i mafiosi. Oggi che Agrigento non ha nemmeno un'amministrazione (il sindaco Marco Zambuto si è dimesso qualche mese fa) l'indolenza e la rassegnazione rappresentano le chiavi di lettura di questa città che è terra di filosofi, scrittori, arte, bellezza. «Se il mondo all'improvviso va a cinquanta all'ora - dice il prefetto Nicola Diomede - Agrigento a cinque all'ora andava e a cinque all'ora continua ad andare. Si va molto lentamente ed è come se determinati fenomeni passino sopra tutto». Una città dormiente, coperta da una coltre «sotto la quale determinati meccanismi si stabilizzano di più - dice Diomede -. Ogni tanto la coperta viene sollevata ma poi le analisi dei fenomeni richiedono tempo». E tutto scorre, tornando alla velocità di sempre la cui cifra è la lentezza.

Una lentezza che si materializza nella capacità di reazione contro la frana: quella vera e l'altra, ancora più grave, del contesto urbano e sociale. Di quella vera si può dire che si discute molto, che i geologi dell'Università di Palermo sono al lavoro per diagnosticare il male, che qualcuno ha pure pensato di risolvere il problema con una bella colata di cemento per farci una piastra di sostegno come se non bastasse tutto il cemento che negli anni ha strozzato la valle trasformando i templi dorici in umili eccezioni tra una bruttura e l'altra. «Il centro storico di Agrigento - dice Carmelo Petrone, direttore del settimanale della Curia “L'Amico del popolo” - è il simbolo di un'occasione mancata: era stato inserito nella legge speciale insieme a Ortigia (la legge risale al maggio del 1976) ma Siracusa è andata avanti con il risanamento, Agrigento no». E per la frana? «Aspettiamo», dice mostrando tutte le prime pagine del giornale che segnalano tutta l'irritazione per come è stato affrontato il problema. A partire dai finanziamenti: il denaro (25 milioni) appare e scompare manco fosse il gioco delle tre carte.

Così vanno le cose nel centro che perde pezzi a tutto vantaggio delle periferie dove la gente si è spostata nonostante servizi scadenti, mancanza di centri di aggregazione. Così vanno le cose in economia, in questo lembo di Sicilia che pure ha risorse a volontà: in circa dieci anni, dal 2004 a settembre di quest'anno hanno chiuso i battenti quasi novemila imprese. Ha chiuso l'Italcementi a Porto Empedocle, è ferma la costruzione del rigassificatore sempre a Porto Empedocle e certo non riesce a compensare del tutto il buon andamento dell'agroalimentare: secondo dati elaborati da Sace nel 2013 l'export del settore vitivinicolo è cresciuto del 6% totalizzando 29 milioni di esportazioni, una goccia d'acqua in un mare di bisogni.  Per farsi un'idea più concreta dell'economia agrigentina basta fare un giro nelle aree industriali, ormai simbolo della desertificazione, vittime del malaffare e della speculazione mafiosa.

Che fare? «Puntare su agricoltura di qualità e turismo - dice il presidente della Camera di commercio agrigentina Vittorio Messina -. Manca una politica di attrazione turistica: gli stranieri non pensano alla Valle dei templi come possibile meta». E chi ci pensa lo fa come una pratica da sbrigare velocemente. In ogni caso i numeri sull'intera provincia (che comprende, per dire, i poli del turismo estivo di Sciacca e Lampedusa ) lasciano parecchio a desiderare: nel 2013 certificati dalla regione 367.992 arrivi e 1.264.206 presenze.  Certo si può dire che incide l'isolamento e gli agrigentini vivono con insofferenza la decisione di non costruire da queste parti un aeroporto; anche i lavori in corso sulla statale 640 che collega Agrigento a Caltanissetta e quelli sulla statale che collega la città dei templi a Palermo potrebbero avere effetti positivi.

E non solo per il turismo. «Una volta completati i lavori sulla 640 - dice Giuseppe Catanzaro, vicepresidente di Confindustria Sicilia e leader degli imprenditori agrigentini - la statale metterà in connessione il centro della Sicilia con il porto di Porto Empedocle e questo fatto non potrà non avere effetti positivi sull'economia. Per il resto concordo nel dire che è finita l'epoca di investimenti drogati nella manifattura e che certamente agricoltura e turismo possono dare una spinta allo sviluppo. A patto che si faccia sistema e che, per esempio le banche tornino a fare il loro mestiere».

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