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Questo articolo è stato pubblicato il 28 novembre 2014 alle ore 18:47.
L'ultima modifica è del 28 novembre 2014 alle ore 20:24.

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Per il Black Friday, giornata di grandi saldi negli Stati Uniti, anche il petrolio quest'anno è scontato: l'Opec, scegliendo di non muovere un dito a difesa dei prezzi, ha fatto precipitare il Wti sotto 70 dollari al barile, circa la metà rispetto al record storico dell'estate 2008 e oltre il 30% in meno rispetto all'estate scorsa. Il petrolio al Nymex è arrivato a cedere il 10% rispetto al prezzo a cui aveva terminato le contrattazioni mercoledì, vigilia della festa del Thanksgiving che ieri ha tenuto chiusi i mercati americani, ed è quotato poco sopra i 66 dollari al barile, il livello più basso dal settembre 2009. Scivola anche il Brent, a 71 dollari, dopo il crollo del 7% con cui giovedì aveva reagito al clamoroso vertice dell'Organizzazione degli esportatori di greggio (qui i grafici di Brent e Wti).

Se i consumatori stanno festeggiando - soprattutto oltre Oceano, dove il prezzo della benzina, molto meno tassata che qui, è già ai minimi da 5 anni - la preoccupazione si sta tuttavia facendo palpabile tra i produttori di petrolio. Con il barile a 60 dollari, dove sembra che i sauditi vogliano spingerlo, o forse addirittura meno, come ora teme qualche analista, le attività estrattive rischiano di diventare insostenibili. Non solo per le società americane dello shale oil.

Anche all'interno dell'Opec c'è chi non riesce a nascondere l'allarme. All'indomani del vertice, poco prima di lasciare il suo hotel a Vienna, il ministro del Petrolio iracheno Adel Abdul Mahdi ha commentato che la caduta del prezzo del greggio è una cosa “terribile”. «Ho già tenuto una riunione con i miei collaboratori e cercheremo di mettere a ounto le politiche giuste per fronteggiare la situazione».

La Borsa intanto sta già castigando tutte le compagnie petrolifere, almeno in Europa, perché Wall Street all'indomani del Thanksgiving ieri restava chiusa. Specularmente sono in forte rialzo i titoli delle compagnie aeree, grazie alla prospettiva di costi più leggeri per i carburanti.

Le condizioni del colosso russo Rosneft, responsabile del 5% della produzione mondiale di petrolio, sono particolarmente critiche: con il rublo ai minimi storici la sua capitalizzazione sul disastroso listino moscovita equivale ormai a 50 miliardi di dollari, più o meno il prezzo che aveva pagato due anni fa per comprarsi Tnk-Bp e una decina di miliardi in meno dei suoi debiti.


Con i costi estrattivi tuttora molto elevati (almeno finché le major non riusciranno a rinegoziarli) il settore Oil & Gas è comunque sottoposto su scala globale a pressioni fortissime. «Nella situazione attuale - osservano gli analisti di Barclays - non vediamo alcuna compagnia in grado di finanziare tanto gli investimenti quanto i dividendi». «Tra poco vedremo affettare col coltello il capex dell'industria petrolifera non Opec» promette Oswald Clint di Bernstein Research, prevedendo un calo del 50% delle spese per esplorazione e del 10% per lo sviluppo di nuovi giacimenti già scoperti. «Sarà doloroso, ma almeno così riusciranno a staccare le cedole».

Quanto ad autorizzare nuovi investimenti, nemmeno se ne parla. «Col Brent a 70 $ difficile immagine anche un solo grande progetto che riesca a ottenere luce verde dalle majors», afferma Mark Lewis di Kepler Cheuvreux. Più si tratta di progetti costosi, più è probabile che vengano abbandonati, ovviamente. Sono dunque ad alto rischio tutte le esplorazioni nell'Artico e lo sviluppo delle risorse offshore, specie in condizioni difficili, come in Brasile, dove pure sono stati scoperti enormi giacimenti, che rappresentavano una delle maggiori speranze di espandere l'offerta di greggio quando - prima o poi - la domanda tornerà a correre. Se tutto si ferma, è molto probabile che anche le quotazioni del petrolio a quel punto torneranno ad infiammarsi. È sempre stato così nella storia del petrolio: ogni volta che i prezzi crollano, gli investimenti si fermano e si gettano le basi per poderosi rally negli anni successivi. Il caso scuola, che nel settore tutti ricordano ancora con sgomento, è quello del famoso “oil crash” del 1986, che guarda caso venne provocato deliberatamente proprio dall'Arabia Saudita, che voleva riprendersi quote di mercato.

Tra gli investimenti che verranno fermati stavolta - a meno di un'improbabile repentina ripresa dei prezzi del petrolio - senza dubbio ce ne saranno anche nello shale oil e nelle sabbie bituminose canadesi. È soprattutto su questi che si focalizzerà l'attenzione del mercato ed è da questi che, secondo molti analisti, dovrà arrivare il segnale in grado di invertire la tendenza ribassista. Ma ci vorrà pazienza. Il prezzo del petrolio, secondo Goldman Sachs, non cambierà rotta almeno fino a gennaio-febbraio, quando le compagnie americane forniranno indicazioni sul capex 2015.

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