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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2014 alle ore 21:33.
L'ultima modifica è del 01 dicembre 2014 alle ore 22:45.

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Il South Stream non si farà più. A mettere una pietra tombale sul gasdotto che dal 2018 avrebbe dovuto portare in Europa il gas russo aggirando l'Ucraina è stato Vladimir Putin in persona: «Se l'Europa non vuole realizzarlo, non verrà realizzato», ha dichiarato il presidente russo da Istanbul, in conferenza stampa col presidente turco Tayyip Erdogan. Per maggiore chiarezza ci si è messo anche Alexej Miller, il ceo di Gazprom: «Il progetto è finito».

Dichiarazioni che non lasciano scampo alla pipeline e che potrebbero avere qualche ripercussione diretta anche sull'Italia. Il nostro Paese ai primi di maggio era già stato cancellato dal tracciato della pipeline, che contrariamente ai piani originari si sarebbe fermata in Austria. Ma Eni è tuttora socia al 20% di South Stream Transport Bv, joint venture incaricata di costruire e gestire la tratta offshore nelle acque del Mar Nero, ma il destino della società – di cui fanno parte anche Gazprom al 50%, più la francese Edf e la tedesca Wintershall, entrambe al 15% – oggi è quanto mai incerto.

E poi c'è Saipem, che per la tratta sottomarina ha già cominciato a lavorare, grazie a tre contratti di appalto, l'ultimo dei quali – il più ricco, da 2 miliardi di dollari – era stato assegnato soltanto in marzo. Per ironia della sorte le tubazioni appena assemblate e pronte per essere posate sui fondali del Mar Nero sono salpate giusto ieri dalla Bulgaria alla volta della Russia, a bordo della nave piattaforma Castoro 6. Mosca finora si era dimostrata puntuale nei pagamenti e di sicuro i contratti prevedono ricche penali in caso di inadempienze. Ma per la società italiana si è trattato di un fulmine a ciel sereno.

Le probabilità che South Stream andasse avanti secondo i piani si stavano comunque assottigliando. La crisi ucraina, che ha inasprito le relazioni tra Mosca e l'Occidente, ha precluso la possibilità di una trattativa con la Commissione europea per ottenere una “legalizzazione” della pipeline, nel rispetto del Terzo pacchetto energia. Inoltre il progetto è costosissimo – oltre 50 miliardi di dollari secondo le ultime stime – e la Russia è sempre più in difficoltà nel finanziarlo: non solo le sanzioni l'hanno esclusa dai finanziamenti delle banche internazionali, ma il crollo del petrolio, da cui Mosca deriva oltre metà delle entrate, ha messo in crisi la sua economia.

I partner stranieri e l'Eni in particolare hanno già chiarito che non hanno intenzione di andare in soccorso di Gazprom: «Il progetto doveva essere finanziato il 70% a debito e il 30% a equity e la nostra esposizione era di 600 milioni – ha spiegato il ceo Claudio Descalzi il 4 novembre in un'audizione parlamentare –. I soci ora faticano a trovare finanziamenti, ma l'Eni mai e poi mai potrebbe mettere 2,4 miliardi sul progetto». Di più. «Abbiamo l'opportunità contrattuale di uscire e la valuteremo».

Sulla stessa linea anche il governo italiano, che molto recentemente ha cambiato orientamento, con il ministro dell'Industria Federica Guidi che ha detto che per l'Italia «South Stream non è più nella lista delle priorità».

Putin dal canto suo ha detto che ormai la Russia preferisce «ridirigere le sue risorse energetiche verso altre regioni del mondo». Tra queste la Cina, con cui Mosca ha da poco stretto accordi di fornitura. Ma anche la Turchia: Gazprom ora punta a costruire insieme alla turca Botas un altro gasdotto (guarda caso della stessa capacità di South Stream: 63 miliardi di metri cubi l'anno), che potrebbe anche riconnettersi via Grecia con l'Europa balcanica «se sarà giustificato» dalla domanda. Intanto Istanbul otterrà via Blue Stream il 20% di gas in più (ossia circa 3 miliardi di mc) da gennaio, col 6% di sconto.

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