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Questo articolo è stato pubblicato il 02 dicembre 2014 alle ore 06:37.

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Walter
Riolfi Chi si sorprendesse nel vedere i titoli di Stato italiani andare così bene, quando l'economia del Paese non riesce ad emergere dalla recessione, dimentica che questa reazione è quasi normale sui mercati finanziari. Se l'economia va male, le banche centrali tendono a far scendere i tassi d'interesse e li mantengono bassi il più a lungo possibile. Il valore delle obbligazioni s'accresce e scendono dunque i rendimenti. Solitamente, in queste condizioni, sono le borse a soffrire. E, in termini relativi, Piazza Affari ha fatto un po' peggio dei principali mercati europei e le piazze d'Eurozona hanno deluso rispetto a Wall Street. Potrebbe invece sorprendere la più pesante caduta, ieri, subita dai titoli bancari, vista la stretta (e talvolta perversa) relazione tra questi e il debito pubblico italiano. E, difatti, nelle ultime due settimane, ossia da quando hanno preso forma le aspettative di un quantitative easing della Bce, il settore bancario di Piazza Affari s'è comportato decisamente meglio dell'indice FtMib.
Anche nel 2011-2012, si dirà, le cose andavano male per l'economia italiana (e dei Paesi periferici) e questo non aveva impedito ai rendimenti dei titoli di Stato di finire alle stelle. A quel tempo i mercati valutavano solo i rischi d'insolvenza o di una rottura dell'euro; oggi, con la consueta esasperazione, badano unicamente ai tassi a zero della Bce e alla droga monetaria che Mario Draghi s'appresterebbe a somministrare il prossimo anno attraverso l'acquisto di bond governativi. Il fatto che il rendimento del nostro BTp decennale sia finito al 2%, a un nuovo minimo storico, e che lo spread sul Bund (all'1,29%) sia tornato ai livelli pre-crisi d'inizio 2011, è dipeso solo dalla politica monetaria della Bce (soprattutto dal progetto Omt) e dal radicale mutamento d'umore tra gli investitori internazionali: i quali, pur di spuntare un ritorno un po' più alto per i loro investimenti, sono disposti a sorvolare sui rischi o, addirittura, hanno rimosso la concezione stessa del rischio. Come spesso avviene nelle fasi di euforia.
Si ricorderà come nei lunghi mesi di crisi nel 2012, gli investitori giustificassero il loro accanimento contro Btp e Bonos adducendo pure la mancanza di crescita economica tra i Paesi periferici d'Eurozona. Ed era difficile non dare loro ragione. Oggi quell'invocata crescita ancora non si vede. E per giunta è scomparsa anche da Paesi virtuosi come la Germania, mentre i debiti pubblici di quasi tutti gli stati sono cresciuti e quello italiano è di 10 punti percentuali più alto di due anni fa. Nel frattempo, la deprecata speculazione al ribasso del 2011-2012 s'è da mesi girata al rialzo e la cosa ci fa naturalmente piacere e ci pare cosa giusta e duratura. Ma cosa accadrebbe se le speranze di un Qe della Bce, coltivate da un buon 60% degli investitori, andassero invece deluse? E cosa succederebbe se la Fed il prossimo anno fosse costretta ad alzare i tassi a causa di una ripresa economica americana che il mercato s'ostina a non voler vedere. Per opportunismo, perché la droga monetaria paga più dei fondamentali e dell'economia reale.
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