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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2014 alle ore 07:09.
L'ultima modifica è del 04 dicembre 2014 alle ore 11:43.

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(Reuters)(Reuters)

All'ultimo vertice Opec tenutosi a Vienna, l'Arabia Saudita si è trovata davanti a un amaro dilemma: tagliare la produzione petrolifera per far risalire i prezzi, agevolando però gli altri produttori esterni al Cartello, e soprattutto beneficiando l'industria dello shale oil americana, oppure lasciarla invariata, affidando ai mercati, come ha sottolineato l'anziano ministro saudita del petrolio Ali al Naimi, il compito di riequilibrare il prezzo. Una mossa, quest'ultima, che avrebbe consentito a Riad di mantenere al contempo la propria quota di mercato.

La mossa saudita
I sauditi da tempo sanno perfettamente che nel mondo c'è un eccesso di offerta. Ed erano altrettanto consapevoli che, se non avessero subito annunciato un vigoroso taglio produttivo, le quotazioni del barile sarebbero precipitate. Come infatti è avvenuto.
Il desiderio di mettere in difficoltà lo shale oil e non perdere quote di mercato in favore dei rivali è la spiegazione più immediata, ma probabilmente non la sola. C'è un altro aspetto, passato in ombra, che, forse, è ancor più determinante. Poche volte nella sua storia, l'Opec è stata così divisa politicamente. Le primavere arabe hanno travolto regimi, innescato feroci guerre, cambiato la geopolitica del Golfo. E soprattutto hanno dato il via a un conflitto aperto tra il blocco sciita, guidato dalla potenza iraniana, e quello sunnita, dove sono presenti anche il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar, ma in cui Riad è la potenza incontrastata.

Potenze regionali in competizione
Iran e Arabia Saudita ambiscono entrambe ad assumere il ruolo di potenza regionale del Golfo Persico. Entrambi sono invischiati nel conflitto in Siria e in altri teatri di guerra minori. Insomma tra Riad e Teheran è in corso una guerra fredda.
L'Iran sostiene il regime siriano del presidente Bashar al Assad, l'Arabia da tempo ne chiede la caduta. In Bahrein la primavera sciita aveva riscosso le simpatie dell'Iran, ma spinto Riad a intervenire con il suo esercito per domare la rivolta. In Yemen, altro Paese confinante con l'Arabia, la rivolta del movimento sciita Houthi, sponsorizzati dall'Iran, è stata travolgente ed ha portato alla conquista della capitale Sanah. In Libano il blocco sunnita è stato spesso messo nell'angolo dalla forza degli Hezbollah libanesi, grandi alleati di Teheran. Per non aprlare del vicino Iraq, una potenza petrolifera governata da un Esecutivo sciita le cui relazioni con Teheran sono decisamente buone. Il maggior timore dei sauditi – essere circondati dall'offensiva sciita orchestrata dall'Iran – sono dunque comprensibili.

Petrolio come arma politica
Usare il petrolio come arma politica e di rappresaglia contro il rivale Iran è quindi un'opzione che non è sfuggita a Riad. Anche se in misura minore, l'Iran soffre di un virus comune a molti paesi esportatori dell'Opec: la petro-dipendenza: dagli idrocarburi infatti ricava il 60% del suo export in valore e il 25% del Pil. Un prezzo così basso del greggio, come quello attuale, rischia di mettere in ginocchio l'economia iraniana, già in grave affanno per le sanzioni internazionali e per le ingenti somme spese per sostenere gli alleati nel conflitto siriano. Basti pensare che per centrare il suo budget 2015 dovrebbe aver bisogno di una quotazione del greggio a 130, 7 dollari, quasi il doppio degli attuali valori.

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