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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2014 alle ore 11:09.

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C'è anche l'opting out, cioè la possibilità per il datore di lavoro condannato alla reintegra, di risarcire con un indennizzo più corposo il lavoratore che ha avuto una sentenza favorevole, in caso di licenziamento disciplinare. Questa opzione è stata discussa ieri nelle riunioni tecniche che si sono svolte al ministero del Lavoro, in preparazione del primo decreto attuativo del Ddl delega Jobs Act, che conterrà la normativa sul contratto a tutele crescenti da applicare ai neo assunti.

Sul Dlgs il cantiere è ancora aperto, molto probabilmente vedrà la luce nel Consiglio dei ministri di metà dicembre, dopo lo sciopero generale indetto da Cgil e Uil per il 12 dicembre. I nodi da sciogliere sono ancora diversi. Tornando alla clausola di opting out, dopo la riforma Fornero è prevista solo per il lavoratore che, se ottiene una sentenza di reintegra, può decidere di sostituire la tutela reale con il pagamento di un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, non soggetta a contribuzione previdenziale, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, oltre al diritto al risarcimento del danno. Si sta studiando di riconoscere la stessa opzione anche al datore di lavoro, come del resto già accade in Paesi come la Spagna e la Germania.

I tecnici sono al lavoro anche per individuare le specifiche fattispecie per le quali verrà confermata la reintegra, in caso di licenziamento disciplinare. Dovranno essere ipotesi particolari, equiparabili per gravità al licenziamento discriminatorio, pur trattandosi di fattispecie diverse. Sul tavolo c'è anche il tema dell'importo dell'indennizzo che dovrà essere pagato dall'imprenditore al lavoratore, in caso di licenziamento economico ingiustificato. L'orientamento del governo e dei tecnici che stanno lavorando al decreto legislativo, è quello di fissare 1,5 mensilità per ogni anno di lavoro, con un massimale che si attesta su 24 mensilità. Nelle bozze originarie si parlava invece di 36 mensilità, ma il Governo sembra intenzionato a ridurre l'importo per restare ai livelli della media europea, confermando il tetto attuale di 24 mesi fissato dalla legge Fornero.

Tutto ciò nel caso in cui si vada in giudizio. Perchè resterebbe aperta una seconda strada, quella della conciliazione. In questo caso al datore di lavoro è data la possibilità, entro termini piuttosto limitati (si ipotizzano 7 giorni) di versare nel conto corrente del lavoratore un indennizzo pari a una mensilità per ogni anno di lavoro, con un tetto di 18 mensilità (per anzianità più elevate si può arrivare fino a 24 mensilità, ma il tetto massimo riguarderebbe una platea residuale). Se il lavoratore non restituisce la somma entro un tempo ristretto (l'ipotesi è 10 giorni) e non dichiara di volerla impugnare davanti al giudice (entro 30 giorni), si considererà conclusa positivamente la procedura di conciliazione.
Allo studio, per incentivare il ricorso alla conciliazione, c'è anche la possibilità di liberare l'indennizzo dalla zavorra rappresentata dalle tasse e dai contributi, ma su questa proposta la Ragioneria ha evidenziato alcune criticità. Si stanno, quindi, verificando i costi di una simile operazione di semplificazione. «L'intenzione è quella di ridurre al massimo il ricorso al giudice per favorire la conciliazione - spiega il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei - . Puntiamo a scrivere regole chiare che assicurino tempi precisi per garantire a tutti la certezza del diritto».

Resta poi da sciogliere il nodo delle imprese fino a 15 dipendenti, per le quali non si applica l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il Governo non intende aggravare i costi per queste imprese che, in caso di licenziamento illegittimo, dovrebbero continuare a vedersi applicati gli attuali tetti (si va da un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità, per salire lievemente dopo 10 e 15 anni di servizio).

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