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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2014 alle ore 10:48.

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Venti mesi dopo le precedenti - a meno di metà del mandato dell’attuale Knesset, in un Medio Oriente più caotico e con i prodromi di una nuova Intifada a Gerusalemme - Israele sta per andare al voto anticipato. La scelta non è stata fatta, ma ieri sera Bibi Netanyahu ha licenziato dal governo i due ministri ribelli: Yair Lapid e Tsipi Livni. «Non tollero un’opposizione interna all’esecutivo», denuncia il premier. Crisi certa e nuove elezioni fra tre mesi, senza la certezza che, dopo, Israele avrà un esecutivo diverso e più stabile di quello attuale.

Più dello scontro inconciliabile tra i favorevoli e i contrari a una pace con i palestinesi, come in quasi tutte le ricorrenti crisi di governo israeliane la causa dello scontro è il bilancio dello Stato. Yair Lapid, ex giornalista televisivo, leader dei laici centristi di Yesh Atid (primo partito alla Knesset con 19 seggi su 120) e ministro delle Finanze, vuole che le risorse dello Stato vadano ai più poveri, ai giovani, alla costruzione di nuove case: la sua proposta/ultimatum è l’azzeramento dell’Iva per le giovani coppie che comprano la prima casa. Netanyahu, premier al terzo mandato e leader del Likud, vuole aumentare le risorse per l’esercito e la sicurezza.

Ma implicito nello scontro sul bilancio è quello fra due visioni di Israele. Come dice Tsipi Livni, ex ministro degli Esteri e ora della Giustizia, leader del partito di centro Hatnua e in questa crisi sodale di Lapid, «le elezioni non saranno su zero Iva, ma se qui debba esserci un Paese sionista o estremista». Il punto è questo: l’idea di un Paese normale che investe in una società più equa, che costruisce case e offre opportunità per gli israeliani dentro i confini riconosciuti di Israele; o il Paese in allarme permanente che dedica le sue risorse per avere più armi e più progetti politici che sociali: come la costruzione delle colonie per le quali il Paese continua a investire e garantire benefici fiscali che gli altri israeliani non hanno.

L’attuale governo di destra-centro presieduto è spaccato in due da che è nato, 18 mesi fa: da una parte una maggioranza di partiti di destra, nazional-religiosi, sostenitori dei coloni e ideologicamente contrari a un compromesso con i palestinesi; dall’altra i centristi, moderati e sostenitori del negoziato. All’opposizione i laburisti, i pacifisti di Meretz, i partiti religiosi ortodossi e quelli arabi.

L’esplosivo della crisi è la proposta di legge su «Israele Stato-nazione degli ebrei», la totale ebraicizzazione del Paese senza alcun equilibrio con la minoranza araba, il 20% della popolazione. La legge, presentata dai nazional-religiosi è stata limata e corretta da Netanyahu senza modificarne l’assetto. La crisi congelerà la legge, che deve essere votata dalla Knesset.

Non è tuttavia così facile che i sostenitori del sionismo per così dire storico e laico, riusciranno a vincere le probabili consultazioni di marzo. Il primo passo, molto difficile, dovrebbe essere l’unione sotto gli stessi propositi elettorali di Lapid, Livni, del leader laburista Isaac Herzog, della sinistra di Meretz, più lo Shas il più forte partito religioso, quello degli ultra-ortodossi sefarditi. Il secondo passo sarebbe di conquistare la maggioranza degli israeliani appena usciti da una guerra a Gaza e forse in marcia verso una nuova Intifada a Gerusalemme e in Cisgiordania. Senza contare il qaidismo alle porte d’Israele: a Sud nel Sinai e nel Nord, alle pendici del Golan. Fra Iva zero sulla prima casa e una casa minacciata, a tre mesi dal probabile voto non è così difficile scommettere su cosa sceglieranno gli israeliani.

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