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Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2014 alle ore 06:37.
L'ultima modifica è del 03 dicembre 2014 alle ore 06:48.

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Il petrolio ha interrotto solo brevemente la sua precipitosa discesa. Dopo il rimbalzo di lunedì - quasi il 4%, il rialzo giornaliero più forte da due anni - le quotazioni sono tornate a calare, aggiornando nel caso del Brent il minimo da 5 anni a 67,53 dollari al barile. Il riferimento europeo ha poi chiuso a 70,54 $ (-2,8%) mentre il Wti si è attestato a 66,88 $ (-3,1%).

Sono state risparmiate da ulteriori ribassi la maggior parte delle compagnie petrolifere. Ma è magra consolazione, visto che dall’estate scorsa, quando il greggio era arrivato a quotare oltre 115 $, il settore ha perso oltre mille miliardi di dollari di capitalizzazione in Borsa, calcola Saxo Bank. Un collasso che a ExxonMobil è costato la perdita di un altro gradino sul podio delle società Usa: con un valore sceso sotto 400 miliardi di $, per la prima volta da almeno dieci anni la major si trova ora al terzo posto in classifica, superata per dimensioni non solo da Apple, ma anche da Microsoft. E il declino rischia di non essere ancora finito.

L’idea che l’offerta di greggio, oggi largamente in eccesso rispetto alla domanda, fosse sul punto di frenare aveva fatto presa tra gli investitori lunedì. Ma si è ben presto rivelata troppo fragile per giustificare una ripresa sostenuta dei prezzi. È vero, per la prima volta da almeno due anni in ottobre i permessi per trivellare shale oil negli Stati Uniti sono diminuti (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). Ma si tratta di un segnale ancora molto incerto e soprattutto prematuro, di fronte ai ben più concreti elementi che fanno invece pensare che la produzione di greggio - almeno nel breve - continuerà a salire.

A placare la ritrovata effervescenza del mercato, ieri è arrivata la notizia che il governo centrale iracheno si è accordato con l’autonomia curda su come gestire le vendite di petrolio: un’intesa che si cercava da anni e che è stata probabilmente accelerata proprio dal tracollo del prezzo del barile, ennesimo indizio del fatto che i paesi Opec oggi stanno solo cercando di difendere le quote di mercato dall’assalto della concorrenza. Gli accordi “legalizzano”  l’esportazione di 300mila barili di greggio al giorno dalla provincia contesa di Kirkuk e di altri 250mila dal Nord del Kurdistan iracheno a partire dal 1° gennaio. La commercializzazione è affidata alla Somo, società del governo centrale, e Baghdad verserà all’Autonomia regionale curda il 17% degli introiti, più contributi a sostegno dei Peshmerga, guerriglieri curdi impegnati contro i terroristi dell’Isis. Anche le compagnie straniere attive in Kurdistan, tra cui Genel Energy, Gulf Keystone Petroleum e Dno, hanno finalmente iniziato ad essere pagate: una svolta che le ha fatte correre in Borsa.

«Negli ultimi mesi abbiamo visto crescere con regolarità le forniture attraverso gli oleodotti curdi - ha commentato Richard Mallinson di Energy - Questo accordo suggerisce che continueranno ad aumentare». Anche perché, ora che l’export è legale, nessun cliente temerà di incorrere in ritorsioni da parte di Baghdad (e magari degli alleati americani).

L’Opec nel complesso ha intanto diminuito la produzione di 424mila bg in novembre, secondo stime Bloomberg. Ma per il sesto mese consecutivo l’output ha sforato il tetto di 30 milioni di barili al giorno che l’Organizzazione ha riconfermato per l’ennesima volta nel vertice di giovedì scorso: in tutto ha estratto 30,6 mbg.

Emergono intanto indiscrezioni sulle dinamiche con cui il Cartello è arrivato alla decisione finale, interpretata dal mercato come una guerra aperta allo shale oil (e un via libera all’ulteriore caduta dei prezzi). A favore del taglio di produzione, rivelano fonti di Bloomberg, ci sarebbero stati ben 8 Paesi su 12. Ma a prevalere è stata la minoranza, ben più influente perché formata dall’Arabia Saudita e dagli alleati del Golfo Persico (Kuwait, Emirati arabi uniti e Qatar), dotati di riserve valutarie ingenti, che consentono di sopportare lunghi periodi di ribasso dei prezzi. Il Petroleum Economist d’altra parte rivela che anche Riad sarebbe stata disposta a un taglio produttivo, a patto che partecipassero anche paesi non Opec. L’accordo sembrava essere stato trovato, almeno con la Russia. Ma il ministro dell’Energia Alexander Novak si sarebbe tirato indietro durante il faccia a faccia a Vienna, a due giorni dal vertice Opec. Alla stessa riunione Igor Sechin, ceo di Rosneft, aveva invece continuato ad appoggiare l’idea.

.@SissiBellomo

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